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Crisi economica: finiremo come la Grecia?

Quando ventiquattro mesi fa l’epicentro di un default che sembrava irreversibile si trovava esattamente al centro dell’Egeo, chi dava conto di drammi e conti che non tornavano in Grecia e si azzardava a richiamare l’attenzione della classe dirigente italiana verso un possibile rischio contagio, era tacciato di essere una Cassandra. “Zitti, siete solo disfattisti” erano i commenti maggiormente in voga. Oggi che a due anni dalla crisi ellenica (peggiorata dalla cura della troika) anche in Italia si prendono misure da spending review su diritti e welfare, e soprattutto si scorgono i dati Istat su disoccupazione, aziende chiuse e risparmio sul carrello della spesa (4 italiani su 10 hanno diminuito sensibilmente il consumo di pesce e carne), quella previsione assume altri contorni.

L’Italia non è come la Grecia, per tessuto industriale, per solidità bancaria, per capitale pro capite. Ma l’interrogativo è se potrebbe o meno diventarlo. Oggi alcuni trend sono pericolosamente paralleli, come l’impennata della disoccupazione, la decisione di toccare i dipendenti pubblici (in Grecia eliminati in 150mila), di decidere strategie a colpi di decreti firmati a Berlino, di tagliare indiscriminatamente diritti e welfare. E domani chissà pensioni e stipendi, così come la troika ha fatto in un biennio di “bisturi” ad Atene, senza comprendere come il “fermo biologico dei consumi” sia l’inizio della fine di un sistema virtuoso.

Ma il punto non è soffiare sul fuoco di una battaglia ideologica tra riformisti e conservatori statalisti: buttarla in caciara a quelle latitudini sarebbe fare solo il gioco di chi sta speculando su questa grossa, grassa disgregazione continentale. Occorre invece il “metron ariston”, quella misura che gli antichi greci predicavano ma che né i loro governanti né i “medici” europei giunti al capezzale ellenico hanno messo in pratica. Se una persona ha necessità di perdere peso perché obesa deve iniziare una dieta, ma non può smettere di nutrirsi per due anni di seguito in quanto rischierebbe di morire, ed ottenere l’effetto opposto a quello iniziale. Certificare che di sola austerità si muore, è ormai uno sport stucchevole dal momento che oggi lo ripetono come pappagalli anche i soloni dell’economia e della politica che affollano i pollai televisivi, ma dimenticando di dire che nel 2012 erano tranquilli e continuavano a fare quello che avevano fatto nei due decenni precedenti: contribuire a ridurre lo Stato nelle condizioni in cui è oggi, con duemila e più miliardi di debito pubblico, con un raddoppio ferroviario che al sud non esiste, con le caste che ingrassano i debiti e si ingrassano le rendite di posizione, con il mercato del lavoro impantanato anche dalla burocrazia pachidermica introdotta da chi dice di avere le mani legate, con i marchi italiani chiusi o ceduti all’estero.

Ecco, in questo c’è un’altra grande assonanza tra Grecia e Italia – forse quella più macroscopica – dove la stessa classe dirigente che ha causato danni e quasi default si erge come salvatrice della Patria, senza che nessuno venga chiamato a rendicontare delle proprie azioni. Ma la differenza, in questo 2014 pieno zeppo di cambiamenti, potrebbe essere nel voto europeo, quando a fine maggio c’è chi dice che le “sorprese” supereranno le promesse. Altro che bufera passata e ripresa.

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