Da qualche tempo si nota un crescente interesse attorno alla tematica delle scuole di specializzazione di area medica. La situazione è ben nota: a fronte di una costante richiesta di circa 8000 nuovi specialisti da parte delle Regioni, il numero di borse messe a disposizione dal Miur è sempre stato di circa la metà, con un trend discendente che toccherà il fondo quest’anno con, per ora, la garanzia di soli 3300 posti.
Numerose sono state le manifestazioni degli studenti e dei neo medici che, è utile ricordarlo, hanno portato allo storico risultato del concorso nazionale per l’accesso che, seppur con alcune criticità, sembrerebbe essere oramai certo. Il dubbio quindi resta: si potrà comunque sfuggire al ricatto del clientelismo e delle baronie solo con un concorso più trasparente del precedente, senza arrivare a parificare la dotazione di borse al numero dei laureati in Medicina?
La questione è, però, molto più complessa di come spesso viene presentata e le semplificazioni, se anche si rivelano utili per far passare alcuni messaggi tra gli addetti ai lavori, fanno perdere di vista il quadro d’insieme. Il problema, infatti non si risolve con piccoli aggiustamenti in una delle fasi del percorso formativo-lavorativo dei professionisti ma è nella struttura stessa del percorso, a partire dal test d’ingresso nelle facoltà di Medicina.
Il meccanismo di sbarramento all’accesso non basato su una programmazione dei bisogni sanitari in venti anni ha prodotto una drastica riduzione del numero dei laureati. I posti oggi si dimostrano insufficienti a coprire il fabbisogno di professionisti, e inoltre c’è da considerare una intrinseca falla nel meccanismo di selezione considerando che, l’unico studio ad oggi effettuato sulla metodica (“Predittività dei risultati dei test di ammissione al corso di laurea in Medicina e Chirurgia sul rendimento accademico professionale dei candidati”, del 2013), ha messo in luce che il risultato al test non correla poi con i risultati ottenuti durante la carriera universitaria.
Se a questi fattori aggiungiamo gli attacchi che il sistema sanitario pubblico ha ricevuto negli ultimi anni, con esternalizzazioni forzate di interi servizi, blocchi del turn over del personale, piani di rientro con ulteriori tagli, riusciamo a capire le stime secondo le quali tra dieci anni mancheranno circa 15000 specialisti e un milione di persone perderà il proprio medico di base.
L’ovvia conseguenza è che il servizio pubblico peggiorerà a scapito del privato, aggravando una situazione già drammatica: nove milioni di persone ogni anno rinunciano alle cure sanitarie per motivi economici e le cose non cambiano di molto a livello europeo. L’ultimo rapporto “Health Workers 4 all” sostiene che, già nel 2020, in Europa mancheranno 1 milione di professionisti sanitari.
È evidente che questa non è solo una questione di categoria, legata al futuro di coloro i quali lavorano nel settore, ma un problema di salute pubblica.
E allora che fare? Ci troviamo di fronte ad una grande sfida, ad una sorta di giro di boa. Possiamo continuare a chiedere di inasprire la selezione, consapevoli del fatto che da qui a dieci anni il sistema sanitario pubblico e universalistico arriverebbe al collasso, sia per mancanza di personale che per mancanza di risorse. Oppure possiamo provare ad invertire la rotta, uscire da schemi e rivendicazioni corporative, con un patto per la salute, un percorso nuovo che veda uniti studenti, specializzandi, professionisti, associazioni e cittadini tutti, superando l’impasse che si è creata.
In gioco c’è il futuro del nostro sistema sanitario pubblico e universalistico.
Scritto in collaborazione con Lorenzo Paglione, studente del VI anno di Medicina e Chirurgia all’Università “La Sapienza” di Roma