Tutti – o quasi tutti – ci auguriamo che Matteo Renzi riesca a passare dagli annunci ai fatti, dando una speranza di cambiamento al paese. Sulla possibilità che il nuovo governo sia in grado di dare una svolta alla questione ambientale, abbiamo tuttavia qualche dubbio, soprattutto perché in Italia non esiste una cultura ambientale consolidata né tra le classi dirigenti né tra la popolazione. Passi che l’ambiente non sia stato inserito da Renzi tra le priorità del suo programma. Ci preoccupa, tuttavia, che parli molto del debito economico e parli poco del debito ecologico, che è ancora più grave di quello economico perché non può essere ristrutturato né cancellato (in parte). Le conseguenze prodotte dal saccheggio della natura sono quasi sempre irreversibili, e quindi “tue per sempre”.
Questa “critica” parte proprio dalla considerazione che la questione ambientale è stata da lungo tempo rimossa in Italia, e ciò ha assorbito risorse economiche per il ripristino a posteriori dei danni causati dall’ incuria del territorio (oltre alla perdita di vite umane). Proprio perché la difesa dell’ambiente – di cui il dissesto idrogeologico è l’asse portante – non fa parte della cultura mainstream né delle scelte concrete finora prese dai governi, riteniamo che il nuovo presidente del Consiglio dovrebbe parlarne molto e diffusamente.
Nella conferenza stampa del 12 marzo ha tuttavia annunciato la creazione, presso la presidenza del Consiglio, di due “strutture di missione”, una per coordinare gli interventi di risanamento idrogeologico del territorio, definita Terra Ferma, dotata di 1,5 miliardi di euro. E un’altra, per coordinare la messa in sicurezza degli edifici scolastici, con 3,5 miliardi di euro. Sulla scuola, ha aggiunto di voler coinvolgere Renzo Piano e questo è già una garanzia; sul dissesto idrogeologico ha precisato soltanto che i progetti sono “già pronti”. Non è forse inutile, pertanto, riflettere su quello di cui quei progetti dovrebbero occuparsi.
Almeno due volte l’anno le piogge intense fanno uscire l’acqua dagli argini di fossi, torrenti, fiumi, sulle colline e nelle pianure, allagano e distruggono sottopassi, campi coltivati e raccolti, fabbriche e abitazioni, strade, tombini e ferrovie. La risposta delle autorità è sempre stata la stessa: si invoca lo stato di calamità naturale, il che vuol dire chiedere allo stato qualche soldo, che arriva sempre in ritardo, per ricostruire nello stesso posto, le stesse cose che sono state spazzate via dalle acque, per rimborsare le perdite dei beni alluvionati o dei raccolti perduti. Nessuno, né i cittadini alluvionati né i governanti, riconoscono che tutto questo non ha niente di “naturale” e i governanti continuano ad autorizzare costruzioni nelle lame, sulle rive dei fiumi, sul fianco delle colline, dove fa comodo ai proprietari dei suoli i quali non pensano che le loro stesse proprietà andranno in rovina, un anno o l’altro. Ogni anno nel nord, al centro e nel sud d’Italia, le alluvioni fanno danni da trent’anni a questa parte. I governanti hanno emanato o modificato continuamente farraginose leggi sulla difesa del suolo, creando agenzie che hanno assicurato appalti per opere, regolarmente spazzate via uno o dieci anni dopo.
Da miliardi di anni l’acqua ha “l’abitudine” di scendere dall’alto al basso lungo le strade di minore resistenza; quando trova un ostacolo, lo aggira e si crea delle vie di scorrimento più comode, oppure lo sposta e lo porta in basso, sia esso sabbia, pietre, piante. D’altra parte la forza delle acque è rallentata e frenata dalla vegetazione spontanea e così nei millenni le acque hanno “disegnato” le valli e hanno creato le pianure che sono poi diventate fertili, attraversate da fiumi che portano incessantemente al mare il loro carico di sostanze solide disciolte o in sospensione. Purtroppo il fondo delle valli e le pianure, là dove corrono le acque, sono stati e sono gli spazi più appetibili economicamente e là sono sorti villaggi e poi paesi e poi città, con le loro strade e “ponti” e sottopassaggi, con i loro “fiumi sotterranei” di fogne. Tutto guidato dalle leggi “economiche”, cioè si è costruito dove c’erano interessi e proprietà privati o dove le opere costavano meno.
Eppure i rimedi sono noti. Il primo è sradicare l’idea nefasta che, pur di “portare a casa” qualche soldo nei comuni e nelle regioni, pur di favorire imprese private, si possano autorizzare costruzioni e opere che intralciano il moto “naturale” delle acque. La seconda ricetta consiste nel mettere al lavoro delle persone che puliscano i fossi e i torrenti eliminando almeno i principali ostacoli al moto delle acque per permettergli di scorrere nelle loro “naturali” vie – persone che svolgano la funzione di “sentinelle” delle acque.
Speriamo che gli interventi di difesa idrogeologica richiamati dal presidente del Consiglio nella conferenza stampa del 12 affrontino questi piccoli-grandi problemi.
Giorgio Nebbia e Giovanna Ricoveri