“Cosa volete che vi dica? Che ci siamo comportati come l’Electrolux? Scrivete pure che Rifondazione comunista è come l’Electrolux e buonanotte”. E’ un paragone, quello con la multinazionale svedese, che Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione respinge categoricamente. Siamo alla vigilia di un appuntamento cruciale: il 3 aprile è fissata la prima udienza sul licenziamento di 11 dipendenti del partito. Sono in cassa integrazione dal 2009 e a decidere sul loro futuro lavorativo sarà il Tribunale di Roma- sezione lavoro. Ed è Enrico Luberto, avvocato che ha scritto il ricorso, a sostenere la tesi: “I vertici di fede marxista si comportano come amministratori delegati di un’azienda privata, che prima dichiarano lo stato di crisi e poi si liberano degli esuberi”. Il tesoriere di Rifondazione, Marco Gelmini, replica: “Avremmo potuto licenziarli immediatamente – dichiara a ilfattoquotidiano.it – e invece hanno ricevuto gli ammortizzatori sociali”. “Non siamo un’azienda”, aggiunge Ferrero. “Un’azienda licenzia tutti e i manager non si tagliano brutalmente lo stipendio come ho fatto io che da sette mila euro al mese, ora ne guadagno 1.700. E vado a lavorare in Fiat perché il partito non può pagarmi, sono in arretrato di 15 mensilità”.
Dagli atti, però, emerge anche un altro aspetto: il lavoro sommerso di alcuni dipendenti. Ferrero sull’argomento risponde: “Perché le irregolarità non sono state denunciate subito?”. Eppure – sempre stando agli atti – una dipendente ha lavorato in nero, per ben due anni, proprio nel dipartimento diretto da Ferrero. Il segretario imbarazzato afferma: “Chiedetelo a lei, perché è venuta a lavorare in nero in Rifondazione comunista?”.
No alla rotazione
Il destino dei lavoratori è scritto fin dal 2008, anno del congresso segnato dalla vittoria di Paolo Ferrero, eletto segretario nazionale, dalla sconfitta di Nichi Vendola e dalla nascita di Sel. Ma è anche l’anno in cui Rifondazione esce definitivamente dalla politica nazionale, non riuscendo a ottenere il quorum per eleggere almeno un parlamentare. A quella data il partito conta circa 160 dipendenti. La sconfitta elettorale ha come prima conseguenza la perdita del contributo pubblico. Il partito – senza i soldi garantiti dalla legge sul finanziamento – avvia lo stato di crisi e procede al licenziamento collettivo. La scelta ricade su 42 dipendenti tra militanti, ex amministratori politici e impiegati. Una lunga trattativa, in cui i dirigenti di via del Policlinico respingono la richiesta di rotazione della cassa integrazione, motivandola così: “Il patrimonio di competenze e conoscenze non può essere sostituito e abbiamo proposto un incentivo economico a chi avesse lasciato il posto di lavoro”. E cosi, si giunge prima alla firma di accordi individuali di rinuncia e successivamente all’intesa con la Regione Lazio, che concede la cassa integrazione in deroga in alternativa al licenziamento.
373 euro per rinunciare a un diritto
Ciascun dipendente – l’8 settembre 2009 – sigla con il partito un vero e proprio contratto, in base al quale si riconosce un indennizzo economico, pari a 373 euro al mese, in cambio della rinuncia a opporsi al licenziamento. “I lavoratori – si legge nella vertenza – ritennero, per spirito di militanza, di non dover incrementare lo scontro; furono costretti, nella convinzione di contribuire al superamento della crisi, ad abdicare alla richiesta di rotazione a fronte della quale fu loro erogato un importo”. Ma la condizione, per ricevere 373 euro netti per ogni mese di cassa integrazione in deroga, era la firma del patto presentato da Rifondazione, in cui il dipendente avrebbe dichiarato di “non avere altro a pretendere da Prc e di non frapporre alcuna opposizione alla messa in mobilità”. “In cambio di poche centinaia di euro – sostiene l’avvocato Luberto, difensore degli 11 dipendenti – si è messa a tacere una condizione pregressa e questa è una tecnica tipica delle società private che denunciano lo stato di crisi”.
Il sommerso
Tra gli undici lavoratori che si stanno opponendo al licenziamento, con anzianità dai 7 ai 23 anni, ci sono esperienze di lavoro nero per lungo tempo negli uffici e nelle direzioni nazionali. Si segnalano casi che arrivano fino a tre anni di paga senza essere regolarizzati. Uno dei ricorrenti – secondo gli atti – ha svolto le sue mansioni nel ‘Dipartimento lavoro’, coordinato proprio dal segretario nazionale. E non è tutto. Si riportano anche spostamenti continui in altre sedi del partito per ordine d’apparato. E quando un dipendente è assegnato al gruppo parlamentare, fin quando Rifondazione era rappresentata in Parlamento, la procedura è di licenziamento e aspettativa senza retribuzione.
Addio anzianità
Nel ricorso si legge anche che, durante la procedura di mobilità, non sono stati rispettati gli anni di servizio, preferendo personale con meno anzianità. Motivo: “Tutti i licenziati appartenevano alla minoranza politica che non aveva votato a favore dell’attuale segreteria politica”. Come Rifondazione proceda nel selezionare chi licenziare si evince nel verbale del 15 maggio 2013 quando, tra i criteri d’individuazione degli esuberi, i vertici del partito chiedono di “considerare anche l’appartenenza politica”. Per Luberto questo è il segnale più evidente della discriminazione: “Rifondazione – dice l’avvocato del lavoro – ha cercato di garantirsi margini d’insindacabilità delle proprie scelte per azzerare la voce del dissenso interno. E quando la cosiddetta minoranza è stata messa fuori gioco, Rifondazione ha proceduto a sei nuove assunzioni”. Anche sulle assunzioni, Ferrero precisa: “I contratti in essere riguardano persone elette al Congresso e quindi infungibili perché ricoprono incarichi non sostituibili da altri”.
di Loredana Di Cesare e David Perluigi (montaggio video di Samuele Orini)
La replica di Paolo Ferrero
Rifondazione non è come l’Electrolux
In un articolo pubblicato sul Fatto on-line di due giorni fa si dà conto del ricorso di 10 lavoratori contro Rifondazione Comunista. Un articolo che stravolge completamente la realtà a cui rispondo dando la mia versione dei fatti.
In primo luogo è bene ricordare che Rifondazione Comunista partecipò alle elezioni del 2008 all’interno della lista Sinistra Arcobaleno con Fausto Bertinotti candidato Presidente. La lista prese il 3,1% e non elesse alcun parlamentare. La stessa cosa avvenne nel 2009 quando nelle elezioni europee la lista di cui faceva parte Rifondazione si fermò al 3,4% e non elesse alcun parlamentare. Mi ritrovai quindi neosegretario di un partito che non aveva più alcuna presenza parlamentare ma con un numero di dipendenti superiore alle 100 unità. Un numero di dipendenti che nulla aveva a che vedere con le dimensioni effettive del partito e con la sua capacità di autofinanziamento. Oltre a questo il giornale Liberazione, accumulava allora ogni anno perdite milionarie e aveva un organico di circa 60 persone.
Se non si fosse fatto nulla, Rifondazione Comunista avrebbe fatto bancarotta in poco tempo, visto che le uscite erano enormemente più alte delle entrate.
Abbiamo così deciso di fare le seguenti cose: in primo luogo di ridurre drasticamente gli stipendi dei dirigenti a partire dal sottoscritto. In secondo luogo di attivare le procedure per la messa in cassa integrazione di larga parte dei dipendenti. In terzo luogo di proporre a tutti i dipendenti e dirigenti la possibilità di licenziarsi volontariamente in cambio di una buona uscita in denaro. Parallelamente si è operato per una ristrutturazione di Liberazione che portasse ad una drastica riduzione delle perdite.
Siamo così arrivati oggi a 20 dipendenti. La situazione era così evidentemente sbilanciata sul piano economico che nessuno ha mai messo in discussione la necessità di ridurre drasticamente il numero di dipendenti del partito. E’ infatti opportuno ricordare che un partito non è una multinazionale che produce, vende ed incassa a fini di profitto. Rifondazione Comunista è un’associazione volontaria di persone che vogliono cambiare la società e che – nella misura in cui non ha contributi pubblici – si regge solo con le donazioni volontarie dei militanti, non avendo industriali che ci finanziano.
In questo contesto, nel settembre del 2009, vi è stato un primo accordo sindacale che ha previsto la messa in cassa integrazione di una quarantina di dipendenti – tra cui i 10 ricorrenti – la corresponsione di una indennità ai dipendenti stessi e la firma, ovviamente volontaria, da parte di questi dipendenti di non avere nulla in contrario ad essere posti in mobilità.
Al termine del periodo di cassa integrazione, Rifondazione Comunista avrebbe quindi potuto mettere in mobilità questi dipendenti senza alcun problema: era quanto concordato. Il gruppo dirigente di Rifondazione decise però di verificare la possibilità di ottenere ulteriori proroghe di cassa integrazione, in modo da permettere a questi lavoratori di avere più tempo per trovare una ricollocazione. Così avvenne, nessuno venne quindi licenziato allo scadere dei primi due anni di cassa integrazione e Rifondazione Comunista ha continuato a chiedere le proroghe per la cassa integrazione fino a quando questo è stato possibile. Dopo circa 4 anni di cassa integrazione – invece dei due previsti al momento della firma dell’accordo e e della sua accettazione – i dipendenti sono stati effettivamente licenziati e tra questi i 10 che hanno fatto una causa a Rifondazione Comunista. Molti altri se ne sono andati e il sottoscritto, data la mancanza di soldi, è tornato a lavorare in regione Piemonte Part-time.
Questa è la sostanza delle cose, dolorosa perché stiamo parlando della perdita di posti di lavoro, ma mi pare francamente un po’ diverso dall’universo dantesco dipinto dall’articolo del Fatto.
Finisco sottolineando due elementi.
Non è vero che i 10 che hanno fatto causa rappresentino una minoranza politica. Tra i 10, come tra tutti coloro che hanno smesso di lavorare per Rifondazione in questi anni, vi sono persone che hanno appoggiato l’attuale gruppo dirigente, persone che l’hanno avversato, persone che non fanno parte di alcun partito e persone che sostengono altri partiti. Parlare di epurazione politica per i 10 che hanno fatto causa è una menzogna.
Controreplica
Prendiamo atto dalla sua replica, che i lavoratori non appartenevano alla minoranza politica. Ci teniamo a precisare che non si tratta di una nostra deduzione, ma di un passaggio testuale del ricorso presentato dai lavoratori al Tribunale di Roma- sezione Lavoro. Per quanto riguarda le risoluzioni volontarie, il fatto che qualcuno abbia accettato una risoluzione del rapporto, non sposta i termini della questione. Questo attiene alla liberta di scelta. Per il resto, la sua posizione – come è agevole verificare – ha trovato ampio spazio nell’articolo da noi pubblicato (con uno stralcio anche audio). Restiamo, inoltre, in attesa della sentenza del giudice del Lavoro che dovrebbe essere pronunciata a giorni. L. Di Ce. Dav. Per.