Cultura

Kurt Cobain, vent’anni dalla sua morte

Che Kurt Cobain abbia segnato gli ultimi 20 anni di musica rock come forse nessun altro è cosa nota, così come la sua fine: scritta anni e anni prima su un copione scientemente redatto dai suoi genitori e, negli ultimissimi tempi, dalla moglie Courtney Love. Può essere invece divertente (e originale) cercare di pensarlo ancora qui tra noi: con o senza la sua musica. Cobain è infatti uno dei pochi musicisti di successo che ha avuto il privilegio di venire a mancare prima di doversi confrontare con la propria fama, proprio quando la sua estrema coerenza gli avrebbe imposto, senza alcuna via di fuga, di sciogliere il temuto dilemma: i Nirvana erano diventati o meno una band mainstream? Certo è che il consenso crescente, ormai vertiginoso e raggiunto cozzava con la riluttanza dello stesso verso un sistema che aveva fatto del suo gruppo una band “da stadio”. Niente di più lontano da quello che era probabilmente il suo “sentire”.

Gran parte della sua fortuna si era fino a quel momento giocata sul filo di lana e la grandezza di dischi come “Nevermind” o “In Utero” risiede proprio nella loro liminalità: la capacità ovvero di restare sull’uscio senza ‘entrare’, suonare sì adulti ma anche terribilmente immaturi, sporchi. Sappiamo però anche che Kurt Cobain, differentemente da quanto amasse far credere, era persona navigata, di una sensibilità imprenditoriale che pochi avrebbero immaginato: e se da una parte evitava di sedersi al tavolo delle grandi occasioni negandosi a più non posso, dall’altra si lamentava in continuazione col suo management perché MTV “non passava abbastanza il videoclip di Smells Like Teen Spirit”, così come rivelato da Charles R. Gross nel libro “Cobain, Più Pesante del Cielo”.

Ma come ‘suonerebbe’ la sua musica oggi se, sul momento, non avesse premuto il tasto ‘esc’?

Domanda più che lecita. Partiamo dai fatti: nella sua lettera di suicidio (o presunta tale) si può leggere chiaramente – con tutte le obiezioni del caso – la stanchezza di un uomo, un artista che probabilmente di lì a breve, fosse sopravvissuto, si sarebbe ritirato a vita privata almeno per un breve periodo. Da “Bleach” in poi, d’altronde, i Nirvana erano arrivati così velocemente all’apice del successo che forse non erano neanche riusciti ad accorgersene.

Altro indizio è rintracciabile nei vari tape scambiati con Michael Stipe, cantante dei REM nonché padrino assieme all’attrice Drew Barrymore di sua figlia Frances Bean: per quanto la collaborazione non sia andata molto oltre un puro scambio di vedute, era evidentemente in programma un disco scritto a 4 mani. E quando un attimo prima di lasciare questo mondo racconta del distacco tra sé ed il pubblico che lo acclama, Cobain forse non voleva che riferirsi al bisogno impellente di una dimensione differente: forse quella di un disco “solista”, che portasse il suo nome e non il peso del fardello dei Nirvana, che pure erano tutta farina del suo sacco. Ed in parte le cose gli sarebbero state facilitate già dai suo compagni di band, poiché c’è chi giura – come il regista Alex Infascelli – che da quelle parti Dave Grohl già ‘mormorasse’ dei suoi Foo Fighters, di cui troviamo un accenno inaspettato nella stessa riedizione di “In Utero”, dove nel brano “Marigold” è proprio lui ad essere protagonista alla voce. In sostanza, aldilà di ciò che è stato, i Nirvana sarebbero potuti arrivare al capolinea comunque: anche se di mezzo non ci fosse stato quel maledetto 5 Aprile.

E sarebbero stati solo gli ultimi di una lunga serie: così come Kurt Cobain aveva spazzato via l’hard-rock e buona parte dell’heavy-metal (il che non suona necessariamente come un merito), è altrettanto vero che gli anni 2000 hanno raso al suolo non solo l’intera scena musicale di Seattle ma reso la vita assai difficile anche alla maggior parte delle band che ad essi sono sopravvissute, in un andirivieni di scioglimenti, reunion, testacoda sonori che non hanno recuperato un centesimo della spontaneità di quegli anni. Chissà che non sarebbe toccato anche a lui, tra annunci e smentite avrebbe potuto ripercorrere (pensate che risate) le orme del rivale di sempre Axl Rose: logorandosi dall’interno e portando in giro gli stessi brani di sempre.

Viene quasi il dubbio che, nella tragedia, tutto sommato gli sia andata bene così. Riposa in pace Kurt: ci manchi “da morire”