Agli argomenti di chi indica il carattere autoritario della sua riforma costituzionale, Matteo Renzi non oppone altri argomenti, ma una delegittimazione radicale dei «professoroni, o presunti tali». Non risponde a chi dice che un governo non può essere costituente (Piero Calamandrei chiese che durante la discussione dell’articolato della Costituzione i banchi del governo fossero addirittura vuoti). Non risponde a chi spiega perché un Senato degli enti locali potrebbe portare a una rottura dell’unità nazionale. Non risponde a chi – come Walter Tocci, senatore Pd che ha annunciato il suo voto contrario – scrive che «l’Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi».
Al sapere Renzi oppone il plebiscito: i professori avranno studiato, ma lui ha il consenso. Poco importa se il consenso è quello delle primarie (consultazioni private a cui ha partecipato una quota minuscola di elettori), se è al governo senza essere stato eletto, se questo Parlamento è legalmente eletto, ma forse non proprio legittimato a cambiare la Costituzione. E poco importa se si sta facendo di tutto per far passare la riforma con i due terzi delle Camere, e dunque per evitare di consultare, con un referendum, il popolo sovrano del quale ci si riempie la bocca.
Invece di discutere, Renzi preferisce scagliarsi contro Rodotà e Zagrebelsky con un tono che ricorda queste parole del primo discorso alla Camera di Mussolini capo del governo (16 novembre 1922): «Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente».
Non è una novità. Renzi sta replicando, su una scala ben più larga, ciò che fece a Firenze durante la caccia alla Battaglia di Anghiari di Leonardo. L’allora sindaco non si abbassò a discutere le prove dell’assoluta infondatezza di quella purissima operazione di marketing esibite dalla comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte. Invece, si scagliò contro i «presunti scienziati», accusati di non essere «stupiti dal mistero» a causa di un «pregiudizio ideologico». Arrivò a scrivere: «penso agli studenti di questi professoroni. Mi domando con quale fiducia ascolteranno adesso le loro lezioni». La violenza denigratoria contro i «professionisti della cultura che pretendono di fare a pugni con la realtà e con l’innovazione» echeggiò il «culturame» di Scelba. E certo Renzi non si scusò quando le operazioni si conclusero senza trovare alcunché.
Ma perché il capo del governo teme così tanto i portatori del sapere critico? Perché sa che la loro funzione, in una democrazia evoluta, è – come ha scritto Tony Judt – «tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo». Ecco, questo Renzi non se lo può permettere: sa benissimo di essere un prodotto che vende solo in regime di monopolio, e con un marketing senza smagliature. La prima funzione del pensiero critico, al contrario, è quella di mostrare che c’è sempre un’alternativa: sempre. Un filologo, un giurista, uno storico, un fisico sanno partecipare al discorso pubblico demistificando la retorica dell’ultima spiaggia e dell’uomo della provvidenza. Perché lo fanno usando argomenti comprensibili e razionali, dimostrabili e verificabili. Tutte cose pericolose per chi basa l’acquisizione del consenso non sul cervello, ma sulla pancia degli ascoltatori-elettori. La cui digestione non dev’essere turbata da dubbi. Quel famoso discorso di Mussolini si chiudeva così: «Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi».
Al tempo del Leonardo inesistente Renzi esaltava le emozioni (che sarebbero state ‘popolari’) e demonizzava la conoscenza (secondo lui elitaria e inutile). Ora Renzi fa leva sulla disperazione diffusa, sul viscerale rigetto per il criminale immobilismo di chi lo ha preceduto, sul riflesso condizionato prodotto dalla promessa degli ottanta euro.
Chi si oppone è «un sacerdote del no», come ha prontamente scritto Ernesto Galli della Loggia evocando addirittura il terrorismo: ecco la parola d’ordine da far passare a tutti costi, prima che qualcuno possa spiegare a cosa si oppone quel no. È il momento di «fare»: ma guai a chi si chiede cosa si stia davvero facendo. Guai a chi sa dimostrare che il re è nudo.
Il Fatto Quotidiano, 2 Aprile 2014