“Chrysta Bell sembra un sogno, Crhrysta Bell canta come un sogno e il sogno sta diventando realtà”. Sono le parole del regista più visionario ed inquieto di Hollywood, David Lynch, che così dipinge la sua conturbante Musa. Una cascata di capelli rosso fiamma su un corpo da sirena, Chrysta Bell sul palco prende al laccio in un inestricabile groviglio di contraddizioni: insieme eterea e carnale, algida e sensuale, distante e vicina, con la sua voce potentemente drammatica e insieme morbida. Al suo incontro con Lynch, Chrysta deve tutto: è lui che l’ha incoraggiata a proseguire la sua carriera di cantante accantonando quella di modella, stregato per l’ennesima volta da una musa canterina come già era accaduto per la Blue Lady Isabella Rossellini, la Julee Cruse di Twin Peaks e l’indimenticabile cameo di Rebekah Del Rio in Mulholland Drive. Insieme hanno scritto le canzoni confluite nel 2011 nell’album This train, di lunghissima composizione, cui appartiene il brano Polish Poem inserito da Lynch nel suo Inland Empire. Il tour italiano di Chrysta Bell fa tappa il 5 aprile al Teatro Supercinema di Santarcangelo di Romagna, nell’ambito dello Smiting Festival. Uno show nello show, perché alle spalle di Chrysta scorrono, sullo schermo bianco, le potenti immagini che Lynch ha creato appositamente per lei.
Raccontaci di questo tour italiano: come lo stai vivendo?
Essere in Italia è sempre una sensazione molto speciale. Stiamo girando molti paesi in Europa ma ce ne sono alcuni cui associ vibrazioni positive. Sono stata al Festival del Cinema di Venezia nel 2006, quando David presentò Inland Empire, ricordo l’ottima accoglienza a Milano di Giorgio e Roberta Armani che mi fecero indossare i loro magnifici abiti e mi portarono a questi strepitosi fashion show. Amo la vostra atmosfera romantica e decadente: ho sempre l’impressione che in Italia tutto sia in eccesso, la cioccolata più nera, le donne più morbide e curvilinee, il vino più intenso, l’erba di un verde più acceso. Tutto sembra bigger than life, ogni cosa è drammatizzata, teatralizzata, ed è un aspetto che amo molto.
Il tuo ultimo album, This train, è del 2011. Stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Sì, questo tour arriva in un interessante momento di transizione. Assieme a David sto scrivendo i brani del nuovo album, che probabilmente uscirà nei primi mesi del 2015, ma non ho fretta. Con lui è sempre così, non ci sono tempi di consegna, solo l’esigenza di assecondare un movimento dell’anima. Nello spettacolo abbiamo inserito tre nuovi brani, che sera dopo sera si arricchiscono del lavoro di cesello dei miei musicisti. La dimensione stessa del viaggio, anche nella fatica del tour, porta nuovo materiale, suggestioni. So che voglio afferrare ogni opportunità come artista, e creare canzoni che il pubblico possa apprezzare ed amare. Se ci mettessi anche dieci anni non mi importerebbe.
In Europa la tua musica e la tua voce sono molto apprezzati: è lo stesso in America?
Diciamo che è un po’ come per i film di David: tutti conoscono Lynch, lo apprezzano, ma poi pochi vanno a vedere i suoi film. È come se il pubblico americano avesse bisogno di una gratificazione più immediata, ci si ferma spesso all’apparenza. Ovviamente sto parlando in termini molto generali, ma io amo un genere diverso di profondità verso la quale i più sono sordi. Funziona un tipo di attenzione corta, da afferrare nel momento e consumare, mentre io ho bisogno di scavare più a fondo, e soprattutto di mettere in musica ciò che sono, essere ciò che sono. Ecco perché quella in Europa è davvero un’esperienza totalizzante, perché quando sono sul palco qui avverto quel genere di attenzione e passione.
Quando è iniziata la tua carriera di cantante?
Mia madre è una cantante: fino a dove mi posso spingere col ricordo ho impressa l’immagine di lei che canta, ed è felice mentre lo fa. Per cui nella mia mente c’è sempre stata questa associazione tra musica e gioia. Andavo in studio con lei fin da piccolissima, ma nessuno mi ha mai incoraggiato a prendere una strada piuttosto che un’altra, è stato un percorso naturale. L’incontro con David ovviamente ha costituito un momento fondamentale: è stato lui ad incoraggiarmi ad andare avanti, a non mollare.
Inevitabile che il tuo rapporto con Lynch susciti un’inevitabile curiosità. Quando e come vi siete incontrati?
Avevo 18 anni, è stato all’incirca quindici anni fa, intorno al 2000. Una di quelle storie pazzesche che solo a Hollywood possono capitare, e solo una volta nella vita. Ed è stato tutto ciò di cui avevo bisogno. David è una persona meravigliosa, comprensiva e amorevole, oltre ad essere il regista pieno di talento e passione che tutti conoscono. Tra me è lui si è instaurato fin da subito questo bellissimo rapporto di mentore e protetto, che sfugge forse a qualsiasi tentativo di definizione. Abbiamo cominciato a scrivere pezzi assieme nella convinzione che non li avrebbe mai ascoltati nessuno, ci siamo lasciati travolgere da un flusso di emozioni, da un’esperienza di vita pura, un’esigenza che entrambi avevamo. Poi insieme abbiamo deciso che i progressi che stavamo facendo meritavano di essere conosciuti. Ci abbiamo messo un sacco di tempo a costruire l’album, e a volte è stato frustrante ma il tempo è stato parte del viaggio: fare passi avanti e poi arretrare, non crederci più e poi sentire tutta la potenza di quella connessione tra noi giocata sul piano musicale ed umano. So di avere avuto la fortuna incredibile di incontrare una leggenda, ma credo di poter dire che siamo preziosi l’uno per l’altro. Riconoscersi è difficile, e noi lo abbiamo fatto.