Mentre il principale partito d’opposizione, il laico e repubblicano Chp, continua a protestare contro gli evidenti brogli avvenuti durante le amministrative di domenica e chiede che vengano ricontate le schede non solo qui nella capitale, dove il suo candidato è stato battuto per una manciata di voti dal sindaco uscente del partito di governo – l’Akp islamico di Erdogan – ma anche a Istanbul e Antalya, a causa dei numerosi black out nelle sedi elettorali durante lo spoglio e delle migliaia di schede a favore dell’opposizione occultate in sacchi per l’immondizia, la guerra ormai personale lanciata pubblicamente dal trionfante Erdogan durante la campagna elettorale, contro l’ex predicatore islamico moderato, Fetullah Gulen, è destinata a inasprirsi. La vittoria del suo partito, al netto dei brogli che non cancellano comunque l’evidenza di una società decisamente polarizzata tra sostenitori dell’Akp nelle aree rurali anatoliche e laici repubblicani nelle aree urbane, non ha infatti rassicurato il premier. Che già guarda alle presidenziali di agosto. “Tireremo fuori i cospiratori della lobby di Gulen da qualsiasi anfratto si siano nascosti”, ha assicurato, davanti alle telecamere, il premier, la notte tra domenica e lunedì, mentre dal balcone del quartier generale dell’Akp esultava mano nella mano con la moglie velata Emine e il figlio Bilal, interlocutore di un’intercettazione telefonica con il padre – postata su Youtube poi chiuso – in cui i due si mettevano d’accordo sul modo migliore per far sparire un’ingente somma di denaro.
La ragione principale della sua insicurezza e conseguente frustrazione è per l’appunto il granitico soft e hard power di Gulen, che nei decenni è riuscito a infiltrare i suoi discepoli nei gangli della magistratura, delle forze dell’ordine, dei media, delle scuole e, ultimo ma non ultimo, nell’ambito imprenditoriale, grazie al suo leit motiv: “Teniamo la scienza, il progresso in una mano e nell’altra la nostra cultura”, a partire dalle radici islamiche che tuttavia non devono impedire alla pianta turca di ambientarsi in un paesaggio dominato dal mercato. Un programma che, grazie al doppio binario del capitalismo e dell’Islam moderato, ha avuto l’immediata benedizione degli Usa, rifugio da 15 anni di Gulen, dopo il colpo di Stato bianco del 1997 realizzato, pur senza sangue, dai militari, preoccupati per la ripresa dell’Islam politico. Impersonato da Erdogan e dal suo partito, entrambe creature di Gulen. Con il quale il premier ha messo a punto la sua agenda fino a un paio di anni fa. Poi, la piovra dell’ex predicatore ha iniziato a diventare troppo tentacolare mentre la megalomania di Erdogan cresceva puntellata dai voti dei palazzinari in cambio di appalti sempre più sostanziosi e incuranti del patrimonio naturalistico di Istanbul.
Con la rivolta popolare di Gezi Park (l’estate scorsa), secondo Erdogan orchestrata proprio da Gulen, per minare la sia popolarità, la rottura tra i due è divenuta insanabile. Il premier in autunno ha imposto la chiusura delle Dershane, le scuole di preparazione agli esami universitari e pubblici, che costituiscono le fondamenta dell’impero di Gulen. Considerato inestimabile in termini di risorse umane e finanziarie, Hizmet (Servizio), è diffuso in 130 paesi attraverso istituti scolastici, primari e secondari, ospedali, fondazioni che promuovono l’attività imprenditoriale. In queste scuole le lezioni vengono tenute parzialmente nella lingua locale e in inglese, e non è necessario essere musulmani per accedervi. Le famiglie che possono pagare provvedono per i figli di quelle indigenti.
Un altro tentacolo, che avvolge l’intero pianeta è costituito da Tukson – nome turco che cambia a seconda delle latitudini – una sorta di Confindustria che associa gli imprenditori che a loro volata provvedono al finanziamento delle scuole del Servizio e pescano tra gli alunni migliori per fondare nuove compagnie e fare investimenti. In questo meccanismo capillare non potevano mancare i media. Al “Servizio” appartiene il quotidiano turco Zaman, con la sua versione inglese, Zaman today mentre al gruppo Zamanyolu – affiliato a Hizmet – una decina di canali tv. Che ora cercano di contrastare la propaganda dei media pro Erdogan.
Ma l’elite dei seguaci di Hizmet è annidata nei tribunali e tra la polizia giudiziaria. Per questo Erdogan, dal maxi blitz del 17 dicembre, la cosiddetta “Mani pulite” turca, che ha portato in carcere i figli di 3 ministri, e lambito suo figlio, ha rimosso circa 6 mila tra funzionari e agenti di polizia e quasi 200 giudici.
Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2014