Sono cinque anni che l‘Aquila non c’è più. Dopo aver perso – criminalmente – più di tre anni, ora la ricostruzione avanza: ma con questi ritmi ci vorranno anni e anni. Più trenta che venti, ancora, per riavere quella che rischia di non essere comunque più una città: semmai una collezione di monumenti immersa in un deserto. Se, infatti, gli organi di tutela del patrimonio culturale – le tanto vituperate soprintendenze – stanno lavorando bene, è il tessuto delle abitazioni civili a non ripartire. Non esiste un progetto che fissi termini certi per il rientro degli aquilani nel centro storico.
Quel che si è perso – per sempre ? – è l’idea stessa di città come specchio e insieme come condizione per l’esistenza di una comunità, appunto, civile. I bambini delle new town stanno raggiungendo l’età della scuola senza aver mai avuto l’esperienza di una città. Cosa ci diranno, quando avranno vent’anni? Con quali maledizioni imprecheranno contro di noi, che rischiamo di essere l’unica generazione incapace di far risorgere l’Aquila, tante volte distrutta, e altrettante – fino ad oggi – ricostruita?
In cinque anni si sono susseguiti quattro governi: nessuno capace di dare una svolta. Nemmeno una svolta morale: si fosse speso per l’Aquila un centesimo dell’entusiasmo che, se non altro a parole, è stato riservato all’Expo 2015! Da cosa dipende, davvero, la nostra immagine del mondo: da come saremo in grado di allestire quella super-fiera, o non piuttosto da come saremo o non saremo capaci di ricostruire una dei venti capoluoghi di regione del nostro Paese? E pazienza se fosse una questione di immagine: è la nostra stessa capacità di essere comunità ad essere messa in discussione dallo strazio vergognosa di una città che muore da cinque anni, a un’ora e mezza di macchina da Roma.
Ed è sempre più difficile, anche se indispensabile, parlare ancora dell’Aquila nella rituale e ipocrita ricorrenza annuale del 6 aprile. Per questo vorrei lasciare la parola a un giovane aquilano, Valerio Valentini, e ai versi struggenti che mi ha mandato:
C.A.S.E. (o Colloquio con un graffitaro)
Perché non osano l’oltraggio
i barbari di scendere di notte
a scartavetrare
di intonaci e pilastri quest’oscena
cantilena?
Perché neppure loro
quest’anonima vuotezza di memorie
a riscattare accorrono
che in una grigia dilaga
onnivora paralisi?
Ci dev’essere la voglia di fissare
un po’ di sé sulle pareti,
o contro i muri, per sottrarre
lo spazio che si sgretola
alla noia corrosiva di chi passa
e manda a mente senza mai guardare.
Ma qui cosa pretendi di fissare
se il solo desiderio è che tutto
la pioggia se lo mangi, se soltanto
speri di sottrarre del tuo
quanto più puoi al lordume dei rottami …
Non lo vedi che dalle feritoie
grondanti dei soffitti
trasuda un’agonia di permanenza
di anime che truciola l’attesa?