Per liberarsi di un po’ di manager ingombranti, l’altro giorno il ministro Padoan ha parlato di “requisiti di onorabilità”, concetto assai virtuoso (e particolarmente scivoloso) da applicare alla torrenziale tornata di nuove nomine pubbliche. Ho dovuto farmi largo tra le interpretazioni più stravaganti applicate alla parola “onorabilità”, ricorrendo, pro veritate, al caro, vecchio, Devoto-Oli. Dice il dizionario: “L’integrità e la dignità sul piano individuale o sociale”. Visto che il concetto di dignità mi è sufficientemente chiaro (e caro), ho voluto capire meglio anche la sottospecie di onorabilità, cioè l’integrità. E qui, alla parola “integrità”, il dizionario è ancora più estremo: “Onestà e rettitudine assoluta”, con un sottotitolo: “L’essere esente da colpa o da accusa“.

Se Padoan ha pensato di schiacciare i nostri polli sotto il peso etico di concetti come onorabilità, integrità e dignità, la sua “mission” può dirsi fallita in partenza. Da quello che raccontano le cronache, uno Scaroni fresco di condanna a Porto Tolle, e con alle spalle una vecchia condanna, ha affermato parlando in audizione al Senato: “Sono sorpreso: siamo quotati, competiamo nel mondo, perché dobbiamo avere norme che altri non hanno?”. Nel frattempo, manager privati, universalmente riconosciuti come l’eccellenza, hanno risposto picche all’invito di Matteo Renzi di sporcarsi le mani con il pubblico.

Le due cose sono strettamente collegate. Come mai a un professionista che lavora per un’azienda privata non passa neppure per l’anticamera del cervello di infilarsi in una “pubblica”? Vi sembrerà strano, paradossale, incongruente, ma i soldi sono l’ultimo dei problemi. Almeno per un manager serio e discretamente illuminato. Due gli scogli insormontabili. Il primo, la cronica mancanza di concorrenza, che abbatte alla radice il valore intrinseco di una gara industriale (ma anche sportiva, artistica, pure di una gara rionale di bocce): far meglio dei tuoi avversari, far convergere sulla tua azienda, sul tuo prodotto, l’interesse del mondo, produrre con dei criteri moderni ma eticamente sostenibili, creare insomma una sintesi virtuosa tra mercato e decoro complessivo. Ecco, quando anche una minima percentuale di tutto questo potrà avvenire nel pubblico?

Secondo motivo, non meno importante del primo. La consapevolezza, se non la certezza matematica, che molto spesso le aziende pubbliche sono imputridite dalla politica, che sono zeppe di lestofanti e assistiti piazzati dai partiti, che certi dipendenti sono cronicamente infedeli (e con ruoli apicali all’interno dell’azienda) perché rispondono a logiche completamente distorte e perverse, come assecondare la parte peggiore della politica e non quella buona dell’azienda. 

Terzo motivo, conseguenza stretta del secondo, è la quasi certezza che nel corso della tua gestione possa arrivarti tra capo e collo un guaio giudiziario, minimo un avvisetto di garanzia, che ti sporcherà irrimediabilmente il curriculum e ti farà perdere la serenità. Ne vale la pena?

Matteo Renzi sarà infastidito per questi rifiuti, che peraltro non dovrebbero essergli nuovi, accadde già nella composizione del governo quando alcuni manager con cui aveva condiviso più di una Leopolda si sfilarono, non avendo apprezzato il suo “disinvolto” sbarco a Palazzo Chigi. Ma il problema è grave e resta aperto. Quale soluzione? Nessuno ha la bacchetta magica, intanto. Probabilmente, si tratta di seminare oggi per raccogliere domani, se te ne danno il tempo. Si dovrà puntare su giovani manager, selezionandoli con attenzione certosina, manager che non siano già nel primissimo girone dei professionisti affermati, ma che rispondano comunque a certi requisiti di grande efficienza professionale e di pulizia morale. Insomma, una grande scommessa. Un po’ come quando un gallerista autorevole investe denaro e credibilità su un giovane artista. Far crescere questa leva, farne l’orgoglio italiano, e allora sì potersene vantare di fronte alla politica.

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