A pochi giorni dal debutto del Salone del Mobile a Milano (8 aprile), Claudio Luti, patron di Kartell e presidente di Cosmit, l’ente fieristico che da 53 anni dà vita alla Fiera milanese, ha tre obiettivi in agenda. Il primo è formare una squadra di studenti volontari per accogliere i 300mila visitatori internazionali del Salone e fornire informazioni sulla fiera e sulla città, cercando di intercettare gusti, desideri, proposte per orientare la Fiera in vista di Expo 2015. Il secondo – guardando all’interno dell’azienda che dirige – è controllare che lo stampo avanguardista da cinque tonnellate per il nuovo divano in policarbonato trasparente Uncle Jack di Philippe Starck, abbia partorito il primo pezzo senza inceppi. Il terzo è che la polizia locale rimuova la deviazione nel tratto Serravalle che al momento incanala il traffico proprio verso Rho Fiera.
Lei è un imprenditore schivo e con una formazione diversa dal design, visto che proviene dal settore moda. Negli ultimi tempi, però, la troviamo spesso in prima linea anche su questioni di interesse collettivo.
Sono sempre stato abbastanza individualista, ma adesso credo sia il momento di metterci la faccia. Bisogna portare Milano a diventare sempre più forte, più bella, più accogliente e costruire una specie di Salone del Mobile permanente consolidando un processo di scambio e ascolto con il Comune. Dobbiamo riuscire a farlo entro la data di inizio dell’Expo, perché avremo gli occhi puntati da tutto il mondo e sarà decisivo per il nostro futuro.
Crede che l’Italia e le sue aziende del mobile siano in grado di “fare sistema”?
Riceviamo tantissime proposte di traslocare il “brand” de I Saloni, ma per noi è fondamentale rimanere radicati qui e mantenere anche all’interno una composizione per il 75% italiana, nonostante tutte le richieste straniere. E ci riusciamo senza dover fare sconti e riempiendo anche quest’anno tutta la Fiera. Tengo a ribadire che il nostro ente è in profitto e non riceve alcun finanziamento, come succede per le altre fiere.
Secondo lei perché ci si lamenta del Salone? È una questione di fisiologico esaurimento delle energie dopo 50 anni o c’è l’interesse di spostare il baricentro altrove?
Non ci possono essere lagnanze. Il nostro territorio ha le aziende più belle e la reputazione internazionale più solida. Poi c’è una enorme filiera di artigiani, specialisti, tecnologie di cui si serve il resto del mondo e che dovremmo saper difendere di più. Può essere che sul fronte dell’innovazione ci siano alti e bassi, che il Fuorisalone nella proliferazione dell’offerta porti anche dei prodotti di qualità inferiore, e che la creatività italiana sia meno competitiva, ma non è un problema del Salone che è leader indiscusso delle fiere di settore.
Però le aziende hanno bisogno anche di tradurre la qualità in numeri, e quelle italiane sembrano particolarmente sofferenti in questo momento.
Con il mercato interno che abbiamo si fa molta fatica, c’è un fortissimo scollamento con le istituzioni e viviamo il problema di autofinanziarci, di snellire le procedure doganali e di essere assistititi nel processo di autocertificazione e nella difesa dalle contraffazioni. Viviamo in una guerra economica in cui conquistarsi spazi nei territori sarà sempre più difficile. Le ambasciate dovrebbero aiutarci e facilitare questi passaggi e a esportare il fatturato, come importiamo tanti designer da tutto il mondo.
Il fatto che molte aziende lavorino con gli stessi progettisti non rischia di far perdere alle storiche italiane la loro tradizionale identità e riconoscibilità?
È molto importante il binomio azienda forte/design forte. Se uno dei due poli prevale sull’altro, nascono progetti meno riconoscibili, guidati solo da una forza. Bisogna essere generosi per mettersi al servizio di tanti progetti e abbastanza coraggiosi per portarne a termine solo 2 sui 10 che hai avviato, perché pochi possono essere all’altezza di quella forza.
Ma lei con Kartell quest’anno ne presenta quasi 30…
Quest’anno sì, ci muoveremo su tre strade: quella dei prodotti grandi con importanti investimenti tecnologici per mostrare i muscoli; l’ingresso della plastica in tavola con prodotti condivisi tra designer e grandi Chef, e infine la metallizzazione della nostra collezione storica con l’ambizione di dimostrare che i prodotti industriali, così impreziositi, nell’epoca del trionfo del ritorno all’artigianato, possono essere davvero competitivi sul fronte della qualità.
A Milano la Triennale ha presentato un secolo di design italiano tra autarchia, austerità e autoproduzione. Tuttavia, il design di marca è collocato solo nell’ultima stanza della mostra.
Penso che l’abbiano fatto in realtà per omaggiarci e riconoscere il ruolo portante delle nostre aziende ma anch’io preferisco pensare agli oggetti in uso anziché in teche. La mostra è molto bella e ben curata, ma racconta una parentesi specifica di storia del design in cui le aziende hanno un ruolo marginale. Nella storia di tutti i giorni e nei numeri, almeno in Italia, credo continuino a essere centrali.