Oggi si commemora il ventesimo anniversario dell’ultimo sterminio del Novecento: il massacro dei tutsi in Ruanda per opera degli hutu che causò tra gli 800.000 e il milione di morti, con un numero rilevante di donne e bambini. In Africa, come nella ex Jugoslavia, la fine della guerra fredda non aprì scenari di pace. Lo sterminio dei tutsi non è stato nemmeno l’ultimo massacro sistematico essendo seguito dall’ancora più recente genocidio del Darfur, iniziato nel 2003 nell’ovest del Sudan, dove al momento vige una fragile tregua.
Nel continente africano, dopo il 1989, si accesero numerosi conflitti intestini (sono 44 nel 1994) poiché diversi Stati, considerati in precedenza strategici da Usa e Urss, nel nuovo scenario non lo erano più e la perdita di appoggi internazionali destabilizzò governi scarsamente legittimati. In questi ultimi decenni la regione dei Grandi Laghi nell’Africa centrale tra Congo, Uganda, Ruanda, Burundi e Tanzania è stata teatro dei più sanguinosi conflitti, spesso a causa degli scontri tra hutu e tutsi presenti in questi stati e in schiacciante maggioranza in Ruanda e Burundi.
Nel piccolo Ruanda, uno dei Paesi più poveri della terra, tutsi e hutu hanno convissuto pacificamente per secoli, prima dell’arrivo degli europei. I tutsi, conosciuti anche come watussi, sono circa il 9% della popolazione e gli hutu l’89%, una composizione che nel corso del tempo ha subito notevoli cambiamenti, proprio a causa delle persecuzioni.
I rapporti tra i due gruppi entrano in uno stato di tensione quando i colonizzatori tedeschi, prima, e i belgi poi, nei primi decenni del Novecento, inseriscono i più ricchi e colti tutsi nell’amministrazione coloniale ponendoli al di sopra degli hutu accendendo così una violenta rivalità. I belgi redigono carte d’identità etniche rendendo chiusi i due gruppi quando prima non lo erano. Quello del ’94 non è il primo conflitto intestino fra le due etnie, ma in precedenza – ancora i belgi a fine anni Cinquanta – hanno aizzato le divisioni, nel momento in cui i tutsi hanno condotto la lotta per l’indipendenza, cosicché i belgi, mutando strategia, hanno puntato sugli hutu. Dopo il 1959, anno dell’indipendenza, i tutsi subiscono discriminazioni e carneficine, in particolare nel 1963 e nel 1973 mentre nel ’72 periscono circa 200.000 hutu.
Migliaia sono i rifugiati tutsi nei Paesi confinanti. Nel 1988 i tutsi presenti in Uganda si organizzano nel Fronte patriottico ruandese e nel ’90 esplode la guerra civile. Il governo hutu è aiutato da francesi e belgi a respingere gli attacchi dei ribelli tutsi.
Il massacro del 1994 è preceduto da una pianificata campagna di odio. Un anno prima, nel ’93, si sono rifugiati in Ruanda dal Burundi circa 300.00 hutu, a loro volta in conflitto con i tutsi del Burundi sui quali grava il sospetto di avere ucciso il primo presidente hutu di quel Paese. Sono i rifugiati hutu dal Burundi che spingono gli estremisti hutu del Ruanda verso la “soluzione finale” nei confronti dei tutsi. Proprio nel ’93, tramite l’Onu, si era negoziato un accordo tra le parti, non accettato dagli estremisti hutu che avrebbero perso una parte del loro potere. Da qui la decisione degli estremisti hutu di uccidere tutti i tutsi del Paese. Nonostante si fossero insediati in Ruanda sin dal XVI secolo provenienti dall’Etiopia, i tutsi sono presentati come stranieri, prevaricatori, depredatori, individui ai quali privare ogni diritto. Nel più comune stereotipo razzista si nega che i tutsi siano esseri umani.
Quello che cambia, rispetto al passato, è che la campagna d’odio è sostenuta dalla radio, la tristemente nota Radio television libre de milles collines che a distanza di pochi minuti trasmette ossessivamente la canzone Iye tubatsembatsembe che dice “sterminiamoli, sterminiamoli”, quasi che non esista altra musica, al punto che anche le vittime ce l’hanno sulla punta della lingua.
Il massacro è condotto dall’esercito, da squadre irregolari e dalla popolazione civile utilizzando armi da fuoco e armi tradizionali come il macete e i bastoni chiodati che procurano la morte dopo atroci sofferenze. Non cadono soltanto i tutsi, ma anche gli hutu moderati che si oppongono al massacro. L’eccidio termina ufficialmente il 4 luglio, con la tardiva operazione Turquoise, una missione condotta dai francesi sotto mandato dell’Onu.
Ricostruzione degli eventi e memorie restano in forte conflitto. Una parte dei massacratori hutu, rifugiatisi nel confinante Congo, ancora due anni dopo hanno minacciato di portare a termine “l’operazione”. Strali d’odio rinnovati nel tempo restano in bilico con il desiderio di pacificazione.
L’8 novembre 1994 è stato istituito dall’Onu il Tribunale internazionale per il Ruanda che ha sinora colpito alcuni responsabili. Tra questi sono finiti sotto processo tre responsabili di giornali, radio, Tv, ormai noti come i Media dell’odio. Anche la Francia non esce in maniera esemplare da questa vicenda: ci sono francesi tra gli addestratori degli squadroni della morte e il Paese transalpino non ha lesinato ingenti forniture di armi al governo razzista dell’Hutu power. I conflitti africani sono sempre stati un grande business per la multinazionale delle armi.
Nel 2000, alla cerimonia di commemorazione dell’eccidio, il primo ministro belga Guy Verhofstadt ha chiesto perdono per le colpe passate, un perdono che non cancella l’eredità di odio intestino lasciato dal dominio coloniale.
Oggi la Francia non partecipa alla celebrazione delle vittime, per protesta contro le accuse di complicità nel massacro rivolte dal presidente ruandese Paul Kagame.