Dal taglio della spesa pubblica previsti 4,5 miliardi, mentre 2,2 arriveranno dal maggiore gettito Iva (una tantum) e dall’aumento della tassazione sulle plusvalenze derivanti dalle rivalutazioni delle quote Bankitalia. Tetto di 238mila euro a stipendi manager pubblici. Pil dato a +0,8% quest'anno
La Pubblica amministrazione deve stringere la cinghia. Idem per manager pubblici, che “hanno preso troppo” e da ora in poi non potranno guadagnare più del presidente della Repubblica. Vera e propria mazzata, poi, per le banche, che vedono raddoppiare la tassazione sulle plusvalenze derivanti dalla rivalutazione delle quote di Bankitalia (di cui gli istituti stessi sono azionisti). Arriverà da queste voci la gran parte delle coperture necessarie per finanziare il taglio da 6,7 miliardi di euro dell’Irpef 2014 previsto nel Documento di economia e finanza (Def), presentato ieri sera da Matteo Renzi dopo il varo da parte del Consiglio dei ministri.
Il risultato del taglio fiscale sarà un bonus medio di 80 euro al mese ai 10 milioni di lavoratori dipendenti e assimilati che guadagnano meno di 25mila euro lordi all’anno. Gli italiani in pratica “avranno la quattordicesima in busta paga”, ha detto il premier. Il taglio sarà inserito in un decreto che verrà presentato venerdì 18 dopo il passaggio del Def in Parlamento (previsto per il 17). Il premier ha assicurato che nello stesso decreto “c’è una soluzione tecnica anche per gli incapienti“, cioè i circa 4 milioni di contribuenti che hanno un reddito così basso (meno di 8mila euro l’anno) da non essere tenuti a pagare imposte. Per loro, fino a ieri, sembrava non fosse previsto alcun intervento. Invece sarebbe stata individuata – per i dettagli, anche qui, bisognerà aspettare il 18 aprile – una modalità alternativa per mettere qualcosa anche nelle loro tasche.
Quanto alle coperture, a garantirle saranno appunto per 4,5 miliardi la revisione della spesa, attraverso un mix di interventi che vanno dall’abbattimento delle uscite per beni e servizi (comprese quelle della sanità, pur senza riduzioni lineari “alla Monti”) all’annunciato giro di vite sugli stipendi dei dirigenti pubblici – non più di 238mila euro – e per 2,2 miliardi altre due voci: il maggiore gettito Iva che arriverà (dovrebbe arrivare) dalle imprese a cui la Pa finalmente pagherà i debiti e l’aumento della tassazione (l’aliquota sale dal 12 al 26%) sulle plusvalenze derivanti dalle rivalutazioni delle quote della Banca d’Italia. Un ritocco retroattivo, questo, che arriva del tutto inatteso e ha subito suscitato le proteste dell’Abi. Per le aziende, invece, il governo intende intervenire sull’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive, che sarà tagliata del 5% quest’anno e del 10% a regime. I poco più di 2 miliardi necessari verranno dall’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, la cui aliquota passerà dal 20 al 26%
La mazzata sulle banche – La misura più inaspettata – e di sicura popolarità – è la mazzata fiscale sulle banche. Il governo finanzierà parte del taglio del cuneo con il raddoppio della tassazione – oggi al 12% – sulla rivalutazione delle quote della Banca d’Italia. Un intervento, retroattivo e una tantum, che colpirà principalmente i maggiori azionisti di via Nazionale (Unicredit e Intesa Sanpaolo). E che rischia di dar luogo a ricorsi, tanto più in questa fase che vede le banche prepararsi per l’esame della Bce con un pesante cura di svalutazioni, pulizie di bilancio e aumenti di capitale. A caldo, già dopo l’uscita delle prime bozze del Def, il direttore generale dell’Abi Giovanni Sabatini ha definito la misura “ingiusta e illogica”. Prima del decreto sulle quote, che scatenò una feroce polemica contro “il regalo alle banche”, nel dicembre scorso gli istituti erano già stati individuati – insieme alle compagnie di assicurazioni – come fonte della copertura finanziaria per eliminare la seconda rata dell’Imu: l’aliquota Ires a loro carico era stata portata dal 27,5 al 36% e l’acconto per lo stesso anno era stato ritoccato all’insù dal 120 al 128,5%. Un incremento che si è riflesso nei bilanci 2013 degli istituti, molti dei quali hanno messo nero su bianco la differenza fra utile lordo e netto causata dall’aumento della pressione fiscale.
I tagli alla politica e alle spese – Il governo ha affilato le forbici e intende intervenire pesantemente sulle uscite per l’acquisto di beni e servizi, comprese quelle della sanità, limate di 1 miliardo pur senza riduzioni lineari “alla Monti” (e “in prospettiva per la Sanità spenderemo di più”, ha detto Renzi). Nel Patto della salute sono stati quantificati “10 miliardi di risparmi, non di tagli”, ha precisato il ministro Beatrice Lorenzin. Le amministrazioni pubbliche dovranno garantire risparmi per circa 800 milioni tagliando le spese improduttive. Per quanto riguarda gli enti inutili, il primo a finire nel mirino è il Cnel (“le famiglie a casa si chiederanno come faremo ora senza il Cnel”, ironizza Renzi). Oltre alla riforma del Senato, poi, il governo studia come ridurre le spese delle altre principali istituzioni: Palazzo Madama, Camera e Quirinale in testa. E anche se alcuni tagli sono già stati effettuati, rimarrebbe un margine di circa 700 milioni ancora da risparmiare. Per quanto riguarda la difesa, anche da qui arriveranno risparmi, ma non è stato ancora comunicato se sarà depotenziato o meno il programma di acquisto degli F35. Infine saranno rimodulati gli aiuti alle imprese, a cui gli imprenditori si dicono pronti anche a rinunciare in cambio di un taglio ‘congruo’ al carico fiscale. L’Irap, appunto. Ancora da decidere gli interventi – probabilmente accorpamenti – sulle Camere di commercio.
13 miliardi per il pagamento dei debiti della pa – Ulteriori 13 miliardi di risorse per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione si aggiungeranno ai 47 già stanziati dai precedenti governi. Il saldo sarà completato “grazie al consolidamento del meccanismo di finanziamento da parte dello Stato”, con impegno alla restituzione da parte degli enti debitori, e a un meccanismo che consentirà alle aziende in attesa di incasso di cedere il proprio credito alla Cassa depositi e prestiti o ad altre istituzioni finanziarie. Un nuovo sistema di regolamentazione e monitoraggio dovrebbe poi impedire che, in futuro, le fatture non pagate ricomincino a accumularsi nei cassetti degli enti pubblici.
Le stime sui conti pubblici – Il Def, che mette nero su bianco gli obiettivi di politica economica e di finanza pubblica da raggiungere nei prossimi tre anni, prende le mosse da una serie di previsioni sull’andamento delle variabili macroeconomiche. Stime dettate da “estrema prudenza e aderenza alla realtà”, che “spero saranno smentite in positivo”, ha detto Renzi. In particolare, la crescita del pil prevista per quest’anno è dello 0,8%. Nel novembre scorso l’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, peccando di eccesso di ottimismo aveva inserito nella Legge di stabilità una stima del +1,1%, per cui Renzi ha potuto sottolineare che il suo governo ha fatto, per “estrema prudenza”, una “revisione al ribasso”. “Una stima ragionevole”, ha confermato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nel corso della conferenza stampa a palazzo Chigi. Proprio oggi, però, il Fondo monetario internazionale ha fatto sapere di prevedere per il pil italiano solo un flebile +0,6% (quanto la Grecia).
Quanto al debito, quest’anno, se si considerano anche i sostegni al fondo salva Stati, è previsto in crescita al livello record del 134,9% del pil. Se invece si lasciano fuori gli impegni europei, dovrebbe fermarsi al 131,1%. Negli anni successivi lo stock dovrebbe però calare progressivamente: 133,3% del pil nel 2015, 129,8% nel 2016, 125,1% nel 2017, 120,5% nel 2018. L’indebitamento netto è previsto invece fermo al 2,6%, garantendo “il mantenimento dei parametri europei”. Niente sforamenti, insomma, perché – ha affermato Padoan – “per cambiare le regole Ue bisogna aver rispetto dei partner” e il rispetto si dimostra “rispettando gli impegni presi”. La richiesta di una maggiore flessibilità sui conti, comunque, rimane: “La politica Ue per la crescita si fa combinando insieme i conti con spazi di manovra per il bilancio. Questo è qualcosa a cui noi arriviamo con i compiti fatti, con le riforme avviate. Il messaggio dell’Italia serve a tutti”.
I possibili appunti di Bruxelles – Il rinvio al 18 aprile del taglio dell’Irpef è dovuto al fatto che, come è noto, il Def non è una legge. Gli interventi che elenca, per diventare operativi, devono essere recepiti da successivi decreti. Non solo: il documento dovrà passare al vaglio di Bruxelles, dove verrà inviato entro fine mese. La Ue, come previsto dalle regole del Patto di stabilità e crescita, il 2 giugno renderà note le proprie “pagelle” e le eventuali raccomandazioni aggiuntive per gli Stati membri giudicati troppo lassisti nel programmare il calendario dei “compiti a casa”. Un passaggio fondamentale, è evidente, per il rapporto tra il governo Renzi e le istituzioni europee. Ma l’indicazione, come fonte di copertura per il taglio delle tasse, del maggior gettito Iva, potrebbe creare qualche problema: si tratta di un’entrata una tantum e non strutturale, come invece il governo aveva promesso alla vigilia. E le coperture una tantum, di solito, fanno storcere il naso ai burocrati europei.
Tetto a stipendi dei manager pubblici a 238mila euro – Sempre nel decreto del 18 aprile il tetto agli stipendi dei manager pubblici, invocato anche dalla commissione Industria del Senato, verrà fissato a 238mila euro annui. Il premier aveva anticipato di voler prevedere una cifra massima pari all’emolumento del presidente della Repubblica. Dunque, “siccome Napolitano si è ridotto lo stipendio a 238mila euro” (da 270mila), “non potranno prendere più di 238mila euro”. “Per la prima volta c’è un limite rilevante, tante aziende erano sopra questa cifra”. Ora, invece, basta deroghe: “Non possiamo nominare persone che guadagnino più di quelle cifre. Abbiamo dato una stretta molto decisiva”, che varrà “tra i 350 e i 400 milioni, ma al di là della cifra conta il valore simbolico. Io sono affezionato ad Adriano Olivetti che diceva che un amministratore delegato non può guadagnare 10 volte di più di un dipendente”.
Le dismissioni di quote nelle aziende pubbliche – La privatizzazione di Poste (per le quali è prevista la vendita del 40% della partecipazione statale, con un incasso di 4-5 miliardi) ed Enav (dalla cessione del 49% dovrebbe arrivare 1 miliardo) è “in fase avanzata” e il governo si impegna ad andare avanti “su questa strada”, che stima possa valere 12 miliardi solo per quest’anno. A confermare l’intenzione dell’esecutivo di procedere nella dismissione di alcuni asset del patrimonio dello Stato è stato il ministro dell’Economia. Gli introiti saranno utilizzati per ridurre il debito pubblico, ha detto. Ma Padoan non ha voluto fare i nomi delle altre società di cui il governo intende cedere quote. Nella lista potrebbero esserci molte tra le aziende che lo Stato controlla direttamente o attraverso la Cassa depositi e prestiti: da Grandi Stazioni, controllata delle Ferrovie dello Stato, alle quote in Eni e StMicroelectronics, da Sace a Fincantieri, passando per Cdp Reti.