“Accolti in alberghi di lusso a cinque stelle, con piscina e centro benessere“, ha affermato il deputato della Lega nord, Nicola Molteni, durante il suo intervento alla Camera lo scorsa settimana, riferendosi al sistema di accoglienza dei migranti e criticando la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina, successivamente messa al voto e approvata.
Perché in tempi di crisi economica e campagna elettorale, certa politica non perde occasione per scagliarsi contro gli immigrati ricorrendo a luoghi comuni assolutamente privi di fondamento, ma comunque facilmente spendibili per attirare voti e consenso. Poco importa se in in questi presunti alberghi a cinque stelle manchino le coperte e i bagnoschiuma, le persone siano costrette a mangiare per terra o sul proprio letto per mancanza di tavoli e il numero insufficiente di bagni comporti disastrose condizioni in termini igienico-sanitari.
Basterebbe guardare il documentario La neve, la prima volta, andato in onda sabato 5 aprile su Rai2, oppure parlare con qualcuno che in questi centri ci ha vissuto davvero e che ancora porta i segni di questa esperienza. Come un ragazzo gambiano recentemente uscito dal Centro di identificazione ed espulsione di Milo (a Trapani) che è stato vittima di un episodio di violenza e preferisce mantenere l’anonimato per timore di ritorsioni, visto che ancora attende risposta alla richiesta di asilo politico.
“Sono dovuto scappare dal Gambia – spiega – perché ho sposato una ragazza cristiana pur essendo musulmano, e l’ho fatto contro la volontà della mia famiglia. Mia moglie è l’unica donna che io abbia mai amato e ho deciso di sposarla nonostante il divieto di mio padre, perché lo ritenevo un mio diritto. Ma quando la mia famiglia l’ha scoperto sono dovuto fuggire di casa perché altrimenti mi avrebbero ucciso. Hanno visto la mia decisione come un affronto e una mancanza di rispetto che non mi avrebbero mai potuto perdonare. Così sono scappato verso l’Europa, non credendo che avrei rischiato la vita anche qui. Sono arrivato a Siracusa dopo tante peripezie, su un barcone proveniente dalla Libia. Mi hanno immediatamente mandato al Cie di Milo, dove sono rimasto fino a metà marzo. Due mesi rinchiuso là dentro senza avere la possibilità di comunicare con l’esterno né di uscire, e soprattutto senza capire per quale motivo e per quanto tempo sarei dovuto rimanerci”.
“Il primo marzo – prosegue – io e alcuni ragazzi abbiamo provato a uscire dal centro perché volevamo organizzare una dimostrazione di protesta, e quando ho tentato di arrampicarmi alla grata esterna sono intervenuti i carabinieri, perché nei Cie la presenza delle forze dell’ordine è costante. Mi hanno colpito diverse volte con dei manganelli, fino a che ho perso i sensi. Mi sono risvegliato mezz’ora dopo al pronto soccorso scortato da due agenti. Sanguinavo dalla testa e da una mano, e quando ho aperto gli occhi ho visto dei medici che mi disinfettavano le ferite e bloccavano la fuoriuscita di sangue con del ghiaccio. Adesso l’incubo della prigionia è finito, ma ho deciso di parlare di questa cosa perché non credo di essermi meritato ciò che ho dovuto subire”.
Un episodio di violenza che andrebbe a sommarsi ad altri già documentati all’interno dello stesso Cie di Milo. “Abbiamo anche provato ad accedere alla cartella del pronto soccorso riguardante il suo caso – afferma un’attivista del Comitato Anti Razzista Cobas di Alcamo – ma non è stato possibile perché dovrebbe partire un’ispezione affinché questo accada. Comunque questo ragazzo mi chiama di continuo e ha sempre bisogno di parlare, evidentemente molto scosso da questa brutta avventura”.
A confermare la versione dei fatti anche un’altra attivista del Comitato Anti Razzista Cobas: “Il primo marzo scorso ho ricevuto la telefonata da uno dei ragazzi gambiani che si trovavano al Cie di Milo. Mi ha raccontato che quella mattina c’era stato un problema con i carabinieri, che alcuni ragazzi erano stati manganellati e quattro di loro erano finiti in ospedale. Mi ha telefonata intorno alle sette di sera, perché era preoccupato dal fatto che i suoi amici non fossero ancora rientrati al centro. Sostanzialmente i problemi sono sorti quando alcuni richiedenti asilo del Gambia hanno richiesto di poter uscire dal Cie, non capendo le ragioni della loro detenzione visto che non avevano commesso nessun reato. Successivamente mi è anche capitato di incontrare alcuni dei 77 gambiani che erano stati detenuti nel Cie di Milo, che ancora non riescono a smettere di pensare all’esperienza della prigionia. Una detenzione che è stata poi definita un errore prefettizio, perché i richiedenti asilo non dovrebbero entrare all’interno di un centro di identificazione ed espulsione. Solo un errore, per cui ovviamente nessuno pagherà”.