Lo chiamano “il partito dei funzionari”, per qualcuno più malizioso “il partito dei sabotatori”. Che, a sentire i bene informati tra le mura del Senato in via di rottamazione, farebbe capo al Pd, ai democratici non renziani contrari alla riforma nei modi stabiliti dal ddl Boschi perché decisi a mantenere una certa fetta di potere, soprattutto economico ma non meno politico, attraverso il controllo di alcuni ruoli apicali dell’attuale organizzazione di palazzo Madama.
Due cifre per capire di cosa si parla: il Senato ogni anno costa 500 milioni di euro, di cui 120 per i senatori e ben 240 (il doppio) per il personale. L’idea di Renzi è quella di accorpare tutta una serie di servizi che oggi sono duplicati per entrambe le assemblee elettive e ridurre drasticamente questa cifra, non tanto con il taglio dei posti di lavoro, quanto (in prospettiva) attraverso il blocco del turnover. Ma dentro il Senato non ci stanno. O meglio: già nel 2013, nel momento più alto della spending review, le organizzazioni sindacali del personale del Senato avevano approvato una bozza di riorganizzazione che prevedeva l’inquadramento in un ruolo unico per tutti i dipendenti di Camera e Senato e, soprattutto, l’accorpamento di alcuni servizi, che attualmente sono duplicati: quello sulle commissioni bicamerali, le delegazioni internazionali, i servizi studi, i servizi bilancio, le biblioteche e, in ultimo, i servizi informatici.
Un taglio netto di costi che certamente ora potrà trovare applicazione vera con il prossimo “taglio” del Senato. L’accordo sindacale, come spesso accade, lasciava però fuori i ruoli apicali della burocrazia di Palazzo Madama: si parlava di revisione di costi, non certo di chiusura dell’istituzione o della sua diversa “destinazione d’uso”. Di qui la rivolta del partito dei funzionari. Le posizioni apicali, in verità al Senato sono 27, ovvero 24 dirigenti di uffici e 3 vice segretari generali più il segretario generale che oggi è una donna, Elisabetta Serafin. Al momento le poltrone di vice segretario generale sono vacanti. E in vista della riforma, nessuno dovrebbe sognarsi di nominare qualcuno su queste tre poltrone perché poi sarebbe quantomeno difficile ricollocarli in caso di accorpamento dei ruoli con la Camera.
Va detto, perché questo sostengono anche dentro il “partito dei funzionari”, che i vice segretari generali non servono a molto, ma guadagnano moltissimo. E, soprattutto, “influenzano politicamente le scelte – sostiene una fonte interna – anche attraverso la stessa macchina burocratica del palazzo. Insomma, sono posti di potere reale, né più e né meno dei più alti dirigenti dei ministeri che mantengono il loro potere nonostante il cambio di amministrazione, di governo”. Proprio quello che Renzi vorrebbe eliminare, proprio quello che parte del suo partito vuole conservare. Ad ogni costo. Tant’è che si spinge perché le poltrone vacanti dei tre vice vengano coperte “prima dell’estate”.
Già, perché è indubbio che anche nel caso in cui l’assemblea di Palazzo Madama fosse trasformata in quello che vuole Renzi, ossia una Camera non elettiva e puramente consultiva, quei ruoli rimarrebbero intatti, al loro posto (sono contratti a tempo indeterminato), mentre il resto del personale, dai consiglieri agli stenografi, passando per i funzionari di ogni ordine e grado, dovrebbero essere riconvertiti ad altro incarico nell’altra Camera elettiva, visto che comunque si tratta di persone che sono state assunte proprio per avere una funzione dentro un’istituzione con specifiche finalità legislative. Insomma, occupare, anche politicamente, i ruoli più alti del Senato significa poter anche “remare contro” una riforma che toglierebbe rendite di posizione politiche (ma soprattutto economiche) di primo piano a parecchie persone. Di qui la fronda contro il ddl Boschi. Alla quale una parte del Pd guarda con speranza.