La Corte Costituzionale ha abbattuto un altro caposaldo della legge 40, quella che regolamentava (secondo un’etica assai restrittiva, oramai per il passato) le modalità di fecondazione assistita per le coppie infertili. Le norme cadute sotto la scure della consulta sono l’articolo 4, 9 e il 12 della medesima legge. Esultano, come ovvio, i Radicali, l’associazione Luca Coscioni e tutti i liberal. Le critiche vengono dal mondo cattolico più intransigente. Messa così, la questione appare una vittoria della scienza sull’oscurantismo, del diritto liberale rispetto alla tradizione, di Giordano Bruno e Galileo rispetto alla Santa Inquisizione.
Non credo però che i termini della questione siano questi. Il punto è un altro. Perché, ancora una volta, è affidata ai giudici una scelta che è prettamente politica? Una tale volontà non può che essere lo specchio del pensiero dei cittadini e il suffragio universale è finalizzato proprio a questo: eleggere coloro che debbono rappresentare la volontà e la sensibilità della maggioranza. Come possono i giudici decidere su una questione che ha caratteristiche etiche e politiche? Come possono i giudici dire che una norma, che rispettava “ieri” la Costituzione, la viola “oggi”?; atteso che nessuna norma in merito appare cambiata.
Si può obiettare che l’Italia è il Paese che vanta il maggior numero di “turisti da fecondazione”, che vi è, ogni anno, una vera e propria migrazione verso quei luoghi dove è possibile l’impianto eterologo, che l’italiano ama la famiglia e i figli e che privare la coppia di questa possibilità è antistorico e anti-scientifico. Tutto questo è vero; o meglio, se la maggioranza dei cittadini la pensa così, è possibile abrogare la legge per via referendaria oppure votare quella parte politica che è maggiormente disponibile a riforme in questo senso.
Ma è pericoloso, anzi pericolosissimo, che un organo giurisdizionale si faccia portatore di istanze politiche che provengono “dalla pancia” della collettività. Quindi, in buona sostanza, facendosi ispirare, non dall’evoluzione culturale e dunque dalla normativa più avanzata e dalla regola, ma dall’impatto utilitaristico sulla società delle proprie decisioni. Pensate se questo dovesse accadere per una vicenda penalistica: Tizio è colpevole o innocente, non in base alle prove, ma in virtù del sentire popolare. Una ricerca antropologica ha evidenziato come in svariate zone dell’India non si ricorra all’aratro meccanico bensì al più antico aratro trainato da animali non perché si disconosca l’evoluzione tecnologica, ma perché un calcolo politico di costi/benefici, in relazione al tipo di appezzamenti di terreno presenti in quelle aree, lo impone, anche a costo di apparire arretrati.
Ma la giustizia non può muoversi secondo calcoli utilitaristici, rifiutando l’evoluzione delle sue regole e decidendo in ragione dei presupposti o degli effetti politici delle sentenze all’interno della comunità di riferimento. La giustizia deve affidarsi all’aratro meccanico se l’evoluzione scientifico-culturale ha introdotto innovazioni specifiche (cioè norme, regolamenti, ecc.) e non può scegliere a seconda dei costi/benefici politici del proprio decidere. Altrimenti, per far evolvere un campo della vita (nel caso di specie quello etico-riproduttivo) se ne distrugge un altro (quello giudiziario).