Augusto Bianchi Rizzi, “l’Augusto” per gli amici milanesi, ha vissuto e vive molte vite. Avvocato, commediografo, scrittore e, soprattutto, padrone di casa: quella di corso Venezia dove, da quasi un quarto di secolo, anima ogni giovedì un salotto (ma lui preferisce definirlo “area ludico – resistenziale”) rigorosamente popolare e di sinistra.

Come tutti i comuni mortali, che di vite ne hanno a disposizione qualcuna di meno, anche lui, naturalmente, ne ha avuta una giovanile. Erano gli anni Sessanta e, “Figlio unico di madre vedova” (titolo del suo romanzo d’esordio, una ventina d’anni fa), studiava Giurisprudenza e cercava l’amore. Qualche volta ci cascava dentro senza nemmeno cercarlo, e forse non era nemmeno amore, ma quasi. Non erano, però, nemmeno storie da dimenticare se, a distanza di tanti anni, l’Augusto ha deciso di ricordarle e, chissà?, reinventarle nel suo ultimo libro: “Tre storie quasi d’amore” (Mursia).

C’è il profumo di quegli anni, il ricordo palpabile delle speranze di una generazione, non solo dello scrittore allora giovincello, nella narrazione di tre cruciali incontri con tre ragazze decisamente  non convenzionali. Erano anni (1963) in cui bastava una Seicento per lasciarsi alle spalle il piccolo mondo milanese e cercare l’avventura nella più esotica delle mete: Budapest. Se poi nella notte ungherese ti capitava di soccorrere una “ragazza alta bionda con un vestito svolazzante” che correva “su spericolati tacchi a spillo” inseguita da un panciuto energumeno, ne avresti avute da raccontare agli amici al ritorno, e da scriverne oggi, cinquant’anni dopo.
Ma Bianchi le avventure le importava anche a casa, come fece l’anno seguente (1964), quando accettò di ospitare un’amica rumena, Elena. O meglio, quando convinse sua madre, riottosa come tutte le madri dell’epoca, ad accoglierla sotto il loro rispettabile tetto. Solo che Elena non arrivò mai: svanita dal treno che doveva condurla da Trieste a Milano. Forse rapita, come suggerì il commissario di polizia che su istanza di Augusto avviò delle indagini. Ma la realtà fu assai diversa…
 
Si sorride nei primi due racconti della raccolta. Non nel terzo, dove solo l’empatia, di chi scrive e di chi legge, può rendere meno greve la condivisione del segreto dell’ultima protagonista: la spagnola Montsé, la carta più forte nel mazzo di queste tre donne, la più bella e dolente, irosa e impotente. Indimenticabile per l’Augusto. E anche per noi.
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