I magistrati di secondo grado hanno ritenuto l'ex senatore sacerdote di quel contratto tra l'allora imprenditore milanese in cerca di protezione e Cosa Nostra. Patto che portò Vittorio Mangano a diventare il fattore di Arcore. L'ex premier ha sempre difeso l'amico: "Sbagliato non ha, non c'è nessun reato, quei signori che si assumono come mafiosi li ha solo frequentati" diceva il leader di Forza Italia poggiando una mano sulla spalla dell'amico
Dentro Forza Italia ormai sembrano come Wile Coyote che apre un ombrellino mentre attende di essere schiacciato da un’incudine. Crolla tutto. Il capo, Silvio Berlusconi, sarà quasi sicuramente affidato ai servizi sociali dopo essere stato dichiarato decaduto da parlamentare e essere diventato incandidabile per la condanna definitiva per frode fiscale. Il fondatore del partito Marcello Dell’Utri, ex senatore e braccio destro del Cavaliere, è ricercato in tutto il mondo a pochi giorni dalla sentenza della Cassazione che sarà l’ultimo capitolo di un processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Gli amici se ne vanno: prima l’hanno fatto – poco prima del voto sulla decadenza – Angelino Alfano, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Lupi; ora sembra pronto al grande salto perfino Paolo Bonaiuti, l’altro “gianniletta”, il fedele sottosegretario a Palazzo Chigi durante tre governi Berlusconi. E gli elettori – quelli che i forzisti rivendicano come requisito per dare “agibilità politica” al proprio leader – sembrano essere sempre meno: Forza Italia secondo tutti i sondaggi è il terzo partito, scavalcato dal Movimento Cinque Stelle (certo, non siamo al 13-14% che toccò ai tempi delle primarie mai organizzate, ma non supera più neanche il 20%). Per giunta non permettono neanche più di usare il più caro dei temi elettorali – quello che galvanizza le folle berlusconiane – cioè l’attacco alla magistratura “rossa”: il pg di Milano ha dato l’ok a una pena soft per Berlusconi, a patto di non diffamare i giudici. Altrimenti chiederà la revoca del possibile affidamento ai servizi sociali.
Destini incrociati da sempre quelli di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Ma da ieri qualcosa è cambiato tra l’ex numero uno di Publitalia, già tra i fondatori di Forza Italia, ex senatore e l’amico di sempre. Il primo è in fuga, con un ordine di cattura che gli pende sul capo, l’altro è rinchiuso ad Arcore in attesa di sapere cosa ne sarà di lui. Quei destini per ora si separano. Ma per i giudici della corte d’appello di Palermo – che vogliono Dell’Utri in carcere – i due uomini sono stati protagonisti di un vero e proprio patto, in cui la terza entità fu Cosa nostra. Sì perché, per le toghe palermitane, l’imprenditore di Arcore pagava i boss, che in cambio gli avevano assicurato protezione totale, grazie a Vittorio Mangano boss di Porta Nuova, ma diventato ben presto il factotum della residenza in Brianza.
Mediatore tra la mafia e l’imprenditore milanese: anche per questo Dell’Utri deve stare in carcere. A un soffio (il prossimo 15 aprile) dalla seconda sentenza della Cassazione (la prima volta i supremi giudici avevano annullato la condanna ordinando un nuovo appello) la Procura di Palermo ha chiesto e ottenuto, dopo averci provato tre volte, un ordine di cattura per l’uomo che ritengono il sacerdote di quel patto tra l’allora industriale in cerca di protezione e Cosa Nostra. “Contratto” che portò Mangano a diventare il fattore di Arcore. “Sbagliato non ha, non c’è nessun reato, quei signori che si assumono come mafiosi li ha solo frequentati” diceva Silvio, mano sulla spalla di Marcello.
“La genesi del rapporto che ha legato l’imprenditore e la mafia con la mediazione di Dell’Utri” scriveva la corte presieduta da Raimondo Lo Forti, “nell’incontro avvenuto a maggio 1974, cui erano presenti Gaetano Cinà, Dell’Utri, Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Berlusconi”. Un summit riferito per la prima volta dal pentito Francesco Di Carlo, ritenuto provato già in primo grado, e che adesso viene ritenuto provato anche dai giudici d’appello che lo collocano tra il 16 e il 29 maggio del 1974: quel giorno Dell’Utri si trova nel suo ufficio di Milano, per incontrare alcune persone.
(Guarda l’intervista di Marco Lillo)
“Un incontro – spiegano i giudici – organizzato da lui stesso e Cina’ a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell’Utri, Gaetano Cina’, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l’assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi”. È quello il primo contatto tra l’imprenditore che diventerà presidente del Consiglio e i boss di Cosa Nostra. Una riunione che per i giudici rappresentano un vero e proprio contratto, con tanto di parti e mediatore. “In virtù di tale patto i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattuale (Marcello Dell’Utri), legati tra loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile, costituito dalla garanzia della protezione personale dell’imprenditore mediante l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Marcello Dell’Utri che, mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante l’ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro”.
Erano gli anni dei sequestri di persona e Berlusconi temeva di essere nel mirino. “È da questo incontro che l’imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso, invero, mai sfiorato) di farsi proteggere dai rimedi istituzionali, è rientrato – argomentavano i giudici – sotto l’ombrello della protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione”. Costata circa 100 milioni di lire finiti nelle tasche del boss Cinà. Dell’Utri era l’uomo cerniera, gestiva i contatti tra Palermo e Milano. Contatti consapevoli, a differenza di quello che sosteneva Berlusconi nella sua non troppo spassionata difesa dell’amico, che invece per i giudici sono “andati avanti nell’arco di un ventennio, tutt’altro che episodici, oltre che estremamente gravi e profondamente lesivi di interessi di rilevanza costituzionale”.