E così il Jobs Act lo fa la Nestlé, portandosi avanti col lavoro, anticipando addirittura le corsette veloci-veloci del nuovo che avanza. Se Matteo Renzi è dovuto andare a Londra per dire che vuole un’organizzazione del lavoro più flessibile (cosa nuova, eh, non l’aveva mai detto nessuno!), la multinazionale del cioccolato (e molto altro) lo dice a Perugia, e lo dice ai suoi operai. Di solito e recentemente gli attacchi ai diritti dei lavoratori usano parole inglesi, che pare rendano più digeribile la fregatura. Questa volta, invece, si usa l’italiano, una specie di “aziendalese” di difficile traduzione, che dice di “nuovi paradigmi produttivi”. In italiano significa basta contratti a tempo indeterminato, tutti precari rinnovabili a piacere, il profitto come variabile indipendente e il lavoro come optional. Facendo tesoro della proposta Nestlé, ci permettiamo di suggerire a imprenditori, multinazionali e, in subordine, al governo “nuovi paradigmi produttivi” utili al rilancio del Paese e ai bilanci delle aziende.
Contratto a sorteggio
Ogni azienda con più di 300 dipendenti potrà sorteggiare alla mattina (non oltre le 7: 30) i lavoratori che avranno il privilegio di recarsi in azienda, collegarsi telematicamente alle loro sveglie e convocarli. Non sfugga il lato umanitario dell’innovazione contrattuale: gli altri potranno restare a dormire, non come una volta che si svegliavano lo stesso, arrivavano in fabbrica e trovavano i cancelli chiusi.
Flessibilità oraria
Perché limitarsi a contratti di tre o sei mesi? In nome di una più produttiva flessibilità del mercato del lavoro si introdurranno contratti orari. Il lavoratore firma un contratto alle nove, il contratto scade alle dieci e l’azienda decide se rinnovarlo entro mezzogiorno. In questo caso può prorogarlo fino alle 15: 30. I più fortunati avranno tre rinnovi giornalieri. Chi firma più di 15 contratti in una settimana ha diritto a un turno notturno gratuito: incredibile benefit e privilegio.
Stage di formazione
Da più parti si accusa il Jobs Act della Nestlé di essere moderato e prudente. Perché trasformare i lavoratori a tempo indeterminato in precari quando si potrebbe trasformarli in stagisti non retribuiti? Il ragionamento è semplice: forgiare immense forme in ghisa tutte uguali in un’acciaieria non è dopotutto come fare le fotocopie in un ufficio? E dunque perché occupare veri operai quando si possono comprare stagisti a quattro euro la dozzina?
Contributo di solidarietà
Il problema sollevato da alcune multinazionali con stabilimenti in Italia apre un nuovo dibattito. Vi pare sensato che dare a qualcuno l’opportunità di imparare un lavoro e la possibilità di conoscere gente nuova in ufficio venga pagata dalle aziende? Il contributo di solidarietà versato dal lavoratore al datore di lavoro risolverebbe il problema. Per il primo anno il neoassunto verserà all’azienda un piccolo stipendio. In questo caso, però, niente flessibilità: il lavoratore pagherà una cifra fissa. Alla scadenza dell’anno, l’azienda potrà decidere liberamente se tenersi il lavoratore e cominciare a pagarlo o licenziarlo e prenderne un altro che versi il suo contributo per un altro anno. Qualche timida resistenza a questi nuovi “paradigmi produttivi” è stata avanzata dal sindacato, subito bollato come “conservatore”, “vecchio” e “ideologico”. Fonti del governo fanno sapere che valuteranno caso per caso, cioè a volte diranno che il sindacato è vecchio, altre volte che è conservatore e altre volte che è ideologico.
@ AlRobecchi
Dal Fatto Quotidiano del 10 aprile 2014