Cinema

Mister Morgan, se amare è un po’ morire. E Caine rapisce ogni inquadratura

Dal romanzo La douceur assassine di Françoise Dorner, incontriamo un ex professore di filosofia a Princeton trasferitosi a Parigi con la moglie: tre anni dopo la morte della compagna, sopravvive da fantasma nella Ville Lumière. Un dramedy, diretto dalla tedesca Sandra Nettelbeck, consigliabile a quelli che Amour di Haneke era troppo autoriale, duro, cupo

di Federico Pontiggia

Vivere è un po’ morire. Vivere è un po’ amare. Ovvero, amare è un po’ morire. Ce lo serve su schermo Mister Morgan (Mr. Morgan’s Last Love), coproduzione maggioritaria belgo-tedesca diretta dalla teutonica Sandra Nettelbeck. Cinema medio, temi sensibili (fine vita), pubblico d’elezione gli anta e over, eppure le geometrie produttive e il mood poetico lo portano su e, ovvio, al di fuori dei nostri confini: un film così non lo sappiamo fare in Italia, e un po’ duole. Non bastasse, il definitivo cambio di passo è davanti alla macchina da presa, due attori di cui innamorarsi è ineluttabile: Sir Michael Caine e la francesina Clémence Poésy, meglio nota come l’harrypotteriana Fleur Delacour. Complice una certa assonanza di plot, Mister Morgan rivela che film sarà – all’ennesima potenza – In the future di Paolo Sorrentino, con protagonista proprio Caine: un one man show senile affidato alla magistrale bravura dell’interprete britannico, che qui – fioretta Variety – “potrebbe recitare il suo ruolo nel sonno, ed è quello che spesso sembra”. Insomma, buone nuove per Sorrentino, ma non è una notizia: Caine rapisce ogni inquadratura; sornione , compassato, arrogante o dolente che sia, ruba i nostri occhi e nobilita qualsiasi cosa l’abbia nei credits. Della serie, ci sono tanti attori cani e c’è l’Attore Caine.

Dal romanzo La douceur assassine di Françoise Dorner, di cui la sceneggiatrice Nettelbeck muta il protagonista da francese in americano all’estero, lo incontriamo ex professore di filosofia a Princeton trasferitosi a Parigi con la moglie: tre anni dopo la morte della compagna, sopravvive da fantasma nella Ville Lumière, ha una non-amica per non-imparare il francese, una baguette al prosciutto senza cetriolini e poca luce da far filtrare nel lussuoso appartamento. Il suicidio è nell’aria, ma anche un incontro che (quasi) tutto può: sull’autobus incrocia Pauline (Poésy, il cognome le è fedele), professione maestra di danza, attitudine solare con qualche rovescio. Per entrambi, la nostalgia è canaglia: la barba di Morgan le ricorda quella del padre defunto, i capelli di Pauline gli rammentano quelli della moglie (Jane Alexander in flashback onirici). Già, dimenticate Lolita: la liaison sarà pure pericolosa, ma è costruita sull’architrave padre-figlia, la prurigine non abita qui, eppure, quasi ce lo augureremmo. Fatto sta, Morgan decide di vivere perché non capisce Pauline, ma poi ci ripensa e butta giù un tot di pillole. Buone per l’acida entrata in scena dei figli, Miles (Justin Kirk) e Joan (Gillian Anderson), che non le manda a dire: “Un’overdose non è la mia scusa preferita per venire a Parigi, ma grazie per lo sforzo, papà”.

Dopo un po’ di shopping, Joan si dà, rimane Miles e tutta la sua ruggine con il babbo: vorrà, saprà la cara Pauline mediare? Senza particolari meriti autoriali, senza idiosincrasie stilistiche, Mister Morgan offre sulla tortuosa via all’aldilà – s’intende, per chi ci crede – una teoria di esotiche cartoline: Parigi e Saint-Malo valgon bene un film; i ricchi, anche loro, c’hanno problemi. Comunque, sulla verticale labbra-occhi della Poésy questi rovelli scompaiono: bellezza non convenzionale, magnetica senza intermittenza, bionda come – ci perdonino i galletti – i campi del Valhalla, potrebbe resuscitare Lazzaro, figuriamoci un Morgan qualsiasi. La Nettelbeck lascia fare, e come altrimenti: la sua sfida l’ha vinta al casting, il resto è inerzia di attori, convenzionale arredo d’interni psicologici ed eterna verità: chiodo schiaccia chiodo, compresi quelli per chiudere la cassa. Un dramedy consigliabile a quelli… che Amour di Haneke era troppo autoriale, duro, cupo. E quelli che… al “di padre in figlio” ci hanno sempre creduto.

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