Dire che Bologna non sia una città di sinistra è sbagliato. Lo è stata. Dal dopoguerra all’inizio degli anni Ottanta, almeno. Se per sinistra si intende anche accoglienza, forse lo era già da molti secoli prima. E la parola accoglienza è un valore. In quest’Italia impazzita, dove i venditori di fumo si spacciano per statisti, e dove per ogni venti immigrati c’è uno scellerato che vota per quell’oggetto che si chiama Lega, capaci di rubare e aggiungerci un bel ruttino, è senza dubbio alcuno un valore.

Bologna è stata anche una città comunista. Per una serie di combinazioni, però, anche la prima ad accorgersi che la sinistra era morta e sepolta prima che franasse il Partito comunista. Votarono Giorgio Guazzaloca, non dimentichiamolo, e allora ebbe la stessa roboanza di una bestemmia urlata in chiesa.

Dunque non ha ragione Grillo a dire che non lo sia mai stata. Per esempio ha avuto grandi sindaci, come oggi non se ne vedono in giro. Se non dovesse bastare Giuseppe Dozza, c’è stato un signore che si chiamava Renato Zangheri, poco amato dalla sinistra extraparlamentare. Ma Zangheri era un comunista vero, non poteva piacere ai figli di papà e quelli degli operai che cercavano la rivoluzione. Aveva contro giovani e apparato, visto che da Roma gli impedirono di ereditare il partito da Enrico Berlinguer, e anche allora lo zampino Giorgio Napolitano ce lo mise. Ma Zangheri, nell’Italia perbenista, e in una città, oggi come allora, dove il peso della chiesa e quello della massoneria si facevano sentire come macigni, non se ne curò molto. Era un letterato, sapeva che la lotta esasperata verso il potere era mestiere riluttante, da borghesucci di periferia.

Contro il parere del partito, sempre lui, offrì anche il primo spazio pubblico agli omosessuali. Si chiama tolleranza, e s’è persa anche quella. Forse sempre per colpa della politica cialtrona o, molto più semplicemente, per colpa nostra.

Fu sempre Zangheri che la mattina del 2 agosto 1980 era sindaco quando dissero che era esplosa una caldaia sotto la stazione, e si scoprì di lì a breve che fu una boma. Per capire il clima: quando ormai era certo che si trattasse di una bomba, i giornali continuarono a insistere con la storia della caldaia. Ma terrore fascista a parte, ci fu quella cosa che si chiama solidarietà, e che oggi si è persa dietro ai fumi della crisi. I bolognesi rientrarono dalle ferie, molti fecero a meno di partire, perché c’era da scavare. Rimboccarsi le maniche e cercare i sopravvissuti. Correvano  autobus e filobus verdi, quella mattina, con i lenzuoli bianchi ai finestrini perché dentro c’erano corpi ammassati di gente già morta o in agonia. Se qualcuno si salvò fu ancora dovuto alla solidarietà. Che, nella mia visione del mondo resta un valore di sinistra.

Zangheri, e ci volle tutto il coraggio di quel professore universitario, al primo anniversario della strage chiamò Carmelo Bene a recitare la Divina commedia dalla Torre degli Asinelli. Ne venne fuori qualcosa che fu più di un brivido. Ma fu coraggiosa la scelta: Bene era un genio sregolato, imprevedibile. Avrebbe potuto pisciare giù dalla torre o ammutolire la città. Andò con la seconda delle ipotesi e, come disse prima di leggere, rese un omaggio ai vivi, non ai morti. Il resto lo fece Dante. Immortale, appunto.

Potremmo andare avanti ore a raccontare Bologna. Potremmo partire da quando i bolognesi commerciavano la seta e avevano sbocco al mare o più semplicemente e in maniera solfeggiante ricordarci del concerto di Francesco Guccini, anno 1984, la Woodstock italiana. Gratis, offriva il bene pubblico, fatto di gente che non rubava sui rimborsi.

Fermiamoci a Guazzaloca. E al giorno in cui i bolognesi si sono svegliati e hanno capito che sì, era valsa la pena essere stati di sinistra, ma che da lì in avanti non lo sarebbero più stati.

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