Salone del mobile

Milano, Salone del mobile e fuorisalone: cinque cose da non perdere

Per orientarsi fra centinaia di iniziative e proposte presenti a Milano, alcune cose da vedere aiutano a capire di più del design, una attività che progetta gli oggetti della nostra vita

di Alberto Bassi

L’effetto disorientamento nei giorni de Salone del mobile e Fuori Salone è molto grande, per gli addetti ai lavori e a maggior ragione per il pubblico allargato di coloro che vogliono vedere e capire: molte centinaia di iniziative sparse in città fra le quali è difficile scegliere, il design proposto in molteplici varianti e modalità, volendo intendere cose fra loro molto diverse, come se fosse una “parola valigia” con una stessa etichetta ma dove dentro ognuno mette quello che gli pare. Esiste poi la tendenza a spettacolarizzare, a cercare modalità di comunicazione e riconoscibilità “alzando la voce” o puntando su ciò che è bizzarro o stravagante.

Indagare, conoscere e fare chiarezza attraverso il pensiero storico e critico – in questa fase di radicale trasformazione delle molte componenti del sistema internazionalizzato del design italiano (impresa/designer/formazione/istituzioni e associazioni/media/distribuzione/comunicazione etc) – può di sicuro aiutare a capire e guardare oltre la crisi.

Allora per design victims ma soprattutto per chi vuol saperne di più, approfittando dell’occasione milanese, proponiamo cinque-cose-cinque, introduttive o di approfondimento scegliendo fra il molto/troppo di questi giorni. Fatto salva poi naturalmente la possibilità: vado in giro e me la godo, fra oggetti curiosi e varia umanità.

1. La storia del design. Sono quarant’anni che è in produzione il divano Maralunga di Vico Magistretti di Cassina e nello show room di via Durini è stata allestita una piccola mostra. In un altro negozio storico, da Mc Selvini (via Poerio 3), una raffinata esposizione è dedicata al centenario di Hans Wegner, progettista danese per pp mobler i cui prodotti, di qualità nel disegno e nella scelta e lavorazione dei materiali, sono in vendita da decenni. Il design è fatto per cambiare gli oggetti in continuazione, come la moda, o per durare nel tempo? Sembrerebbe la seconda, guardando le riedizioni dei pezzi classici o il re-design diffuso, non solo delle automobili come Mini o Cinquecento.

2. La produzione. Si tratta di una componente di un processo più ampio che, dall’intuizione di una necessità o un desiderio, porta attraverso il progetto a predisporre la realizzazione di prodotti per il mercato dei consumi. In questi anni si è parlato molto di autoproduzione, cioè che uno si realizza le cose da sé, una sorta di bricoleur fisico o digitale – ma in questo caso si chiamano makers – ; oppure si è confuso tutto questo con il fare degli artigiani. A noi piace pensare che il designer debba progettare e qualcuno (lui stesso se vuole) debba costruire il sistema attorno (anche) al produrre, cioè che esista l’imprenditore, industriale o artigiano o misto che sia. Nel frattempo per non dimenticare cosa è il “saper fare”, di cui tanto si dice, si può vedere come si mette in mostra, in modo didascalico ed economico, un cluster giapponese specializzato nella lavorazione del metallo con Tsubame-Sanjo Festival factory (Fabbrica del Vapore, via Procaccini): dal sistema delle imprese sul territorio, agli attrezzi per lavorare, agli oggetti. In Italia ci sono molti distretti produttivi, che attraversano momenti difficili: quando spiegheranno bene e a tutti – in modo semplice, didattico e non celebrativo – chi sono e come funzionano? Fra l’altro per provare a recuperare lavoro e futuro per le nuove generazioni.

3. Le scuole. Molte scuole di design internazionali si presentano e promuovono a Milano. Sempre brava a comunicare, l’Ecal di Losanna che con Delirious home (via dell’Orso) ragiona con tono ironico sulle meraviglie della smart home e dell’automazione domestica. L’olandese Royal Academy of Art-The Hague (Ventura Lambrate, via Oslavia 1) mette in scena i propri laboratori con macchinari e studenti al lavoro fra progetto e arte: didattica e istruttiva. Infine il corso di laurea Università Iuav di Venezia-Università di San Marino si è presentato con la performance Cross road design (per chi se l’è persa prossimamente il video su disegnoindustriale.unirsm.sm) condotta dal designer-docente Riccardo Blumer e i suoi studenti: all’angolo di via Melchiorre Gioia si sono smontati e rimontati, si sono fatti “camminare” per la strada diversi oggetti di grande scala, tutto nel tempo di un semaforo che passa dal rosso al verde!

4. Design è ricerca. Il progetto esiste soprattutto se è collegato a innovazione e ricerca. Cosa questo significhi non è risolvibile con un algoritmo o un’indagine di mercato, altrimenti avremmo prodotti perfetti e forse tutti identici, bensì richiede percorsi un po’ più complessi e insondabili, spesso condotti attorno ai limiti delle discipline e delle competenze. Padiglione Italia (Lambrate, via Oslavia 3) da alcuni anni riunisce giovani designer che ricercano su un tema di confine. Disfunzione Mediterranea è quello di quest’anno sul progetto portatore di elementi, imperfezioni, anomalie fuori dagli schemi, disfunzionali appunto ma forieri possibili di cambiamento.

5. Design italiano oltre la crisi. Al Triennale Design Museum (viale Alemagna) utile mostra di speranza, fin dal titolo, all’insegna della tripla A di Autarchia, Austerità e Autoproduzione (ma in alternativa compare la dizione Autonomia), da vedere e discutere. Una prima parte “autarchica” con un preciso punto di vista, pezzi insoliti, disegni e brevetti; la terza parte “autoproduttiva” meno convincente a fronte anche di complessità, labilità e ambiguità del tema. 

 

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