L’importante è vincere, ma senza infierire
Sfogliando un manuale di giochi si può incappare in quest’affermazione perentoria: «L’atari è una malvagità». Un’accusa ingiusta per le piccole scatole nere (o grigio-nere) di un tempo; potranno aver prodotto un’insufficienza a scuola, o essersi rese responsabili di qualche appuntamento mancato, ma niente di più. Il disagio dura però appena un attimo. Le vecchie console per videogiochi Atari non c’entrano. La parola atari riferisce della disperata sorte di una o più pedine del gioco del go, consegnate al loro destino dal nemico. Un’azione, per lui, poco onorevole. Circondandole da ogni lato senza pietà, ha lasciato al suo avversario una sola misera mossa: quella che segnerà la loro definitiva cattura.
L’abbiamo chiamato gioco, ma definirlo tale è un po’ limitativo. Il go, per la filosofia che lo ispira, è un cammino da compiere verso l’acquisizione della coscienza di sé, un viaggio verso il raggiungimento di una condizione di bodhisattva (anticamera all’illuminazione finale) e, per ciò stesso, un’iniziazione all’armonia, all’equilibrio, al rispetto.
Uno dei più antichi giochi del mondo
Ecco una breve descrizione del gioco del go:
Il go è un gioco strategico da tavolo per due giocatori. I due avversari posizionano a turno le loro pedine bianche e nere, che prendono il nome di pietre, sulle intersezioni vuote della “scacchiera”, detta goban. Lo scopo del gioco è circondare una superficie del goban maggiore rispetto a quella dell’avversario, impedendo all’altro di invadere il proprio territorio per sottrarre punti o catturare le pietre. La cattura si attua circondando le pedine dell’avversario completamente, per poi toglierle dal tavolo di gioco. Questo è l’unico caso in cui le pietre si possono rimuovere, altrimenti esse vanno a sommarsi turno dopo turno, finché nessuno dei due giocatori ha più interesse a giocare. A questo punto entrambi passano: la partita è conclusa e si passa alla fase di conteggio dei punti (Enrica Angiolini, Il Go. Universi bianco e nero. Le origini di un gioco millenario sinonimo di armonia e di equilibrio, Roma s. d., p. 5).
Dieci comandamenti dal Sol Levante
Molti secoli dopo il suo arrivo in quel paese, per iniziativa di Ōtake Hideo (nato nel 1942), sono stati elaborati in Giappone i “dieci comandamenti” del gioco del go, che ne riassumono la filosofia. Il più famoso è il primo: «La gola non porta alla vittoria». Aiuta a comprendere come affrontare una partita di go con l’intento di annientare l’avversario nel tempo più rapido possibile, facendosi accecare da una smodata bramosia di vittoria, sia una sicura strada verso la più cocente delle sconfitte. Non si può vincere al go se la ragione, il distacco, il desiderio di conoscenza dell’altro cedono all’emozione, all’egoismo, all’istinto; se all’idea di un duello tra nobili contendenti si sostituisce la pura materialità di uno scontro; se il “particulare” s’impone su una visione d’insieme, e la disposizione “estetica” sul tavoliere delle pedine giocate lascia il posto alle minacciose trame di un disegno bellico.
Forse per riuscire a vincere, come insegna il monaco Yamamoto Tsunetomo (1659-1719), bisogna aver prima imparato a morire: «Io ho scoperto che la Via del Samurai è morire. Davanti all’alternativa della vita e della morte è preferibile scegliere la morte» (Hagakure. Il Codice Segreto dei Samurai, Torino 2001, p. 11).