Il 15 aprile 1989 si gioca la semifinale di Fa Cup tra Nottingham e Liverpool. La partita è ospitata dall’Hillsborough Stadium di Sheffield. Ai tifosi dei Reds viene destinato il settore Leppings Lane, appena sei ingressi per 14 mila persone. E infatti il flusso dei tifosi verso gli spalti è così lento – anche per l’arrivo in ritardo di molti a causa dei lavori in corso sull’autostrada M62 – che a pochi minuti dal fischio d’inizio la polizia decide di aprire il Gate C, un vecchio grande cancello d’accesso a un tunnel che conduce alla Leppings. Bastano pochi istanti e chi è già sugli spalti si ritrova pressato contro le barriere che dividono la tribuna dagli altri settori, chi è ancora all’interno del tunnel viene travolto da quelli che ha alle spalle. La polizia non capisce quel che sta accadendo e quando i tifosi cercano uno sfogo provando a scavalcare le recinzioni li respinge verso l’inferno. Muoiono, schiacciati o soffocati dalla calca, 96 tifosi del Liverpool.

È la strage di Hillsborough, la più grande tragedia dello sport inglese.

A venticinque anni di distanza, se gli stadi d’Oltremanica e la sicurezza al loro interno sono un modello lo si deve a quel massacro. Fu sull’onda emotiva del 15 aprile che l’Inghilterra riconcepì il modo di approcciare alle tribune con il ‘Rapporto Taylor’. In maniera così rapida ed efficace che ci si è sempre chiesti se non si fosse potuto intervenire prima. Anche se per capire di chi furono le responsabilità di quella strage ci sono voluti 23 anni. Fino al 2012 tutto è sempre stato ricondotto al comportamento dei tifosi dei Reds. La colpa fu invece dei poliziotti negligenti, come appurato da una commissione d’inchiesta con oltre due decenni di ritardo durante i quali in tanti hanno cavalcato versioni opposte. Alcuni tabloid parlarono addirittura di tifosi sciacalli beccati a rubare portafogli e orologi dai cadaveri.

Il più piccolo tra le 96 vittime di Hillsborough aveva 10 anni. Si chiamava Jon-Paul Gilhooley e divenne il simbolo mediatico di quel 15 aprile. “To the world was a football fan. To us he was the world” (“Per il mondo era un tifoso, per noi era il mondo”), scrissero i genitori sulla corona di fiori. Hanno rotto il loro silenzio solo nel 2012. Senza il loro mondo, hanno preferito che il resto del mondo restasse fuori dalla porta di casa. Ci ha pensato il destino a sistemare le cose.

Nel week end la Premier League ha ricordato il massacro che si consumò a Sheffield. Le partite sono iniziate con 7 minuti di ritardo: il minuto di silenzio e altri 6, gli stessi che incredibilmente l’arbitro Ray Lewis fece giocare prima di stoppare tutto. Ad Anfield Road, la casa del Liverpool, su 96 seggiolini rimasti vuoti sono state posate altrettante sciarpe dei Reds.

Una era per Jon-Paul che aveva trascorso buona parte della sua infanzia a tirare calci a un pallone per le strade di Huyton, sobborgo di Liverpool. Inseguiva i suoi sogni di cuoio con il cugino Stevie G, come lo chiamavano tutti per le strade della cittadina del Merseyside. Un desiderio comune a tutti i bambini della zona: indossare un giorno la maglia del Liverpool.

Il Liverpool, davanti a quei 96 seggiolini, ha vinto 3-2 contro il Manchester City. Un successo che lancia la squadra di Brendan Rodgers verso un trionfo in campionato che manca dal 1990, quando ancora la Premier non si chiamava neanche così. Molti parenti delle vittime di Hillsborough hanno pianto e gioito in tribuna, durante la commemorazione e dopo la vittoria. Uno è stato protagonista in campo. Stevie G, il cugino di Jon-Paul, è infatti Steven Gerrard.

La bandiera del Liverpool ha scritto nell’incipit della sua autobiografia “Gioco per Jon-Paul” e “se sono diventato il giocatore che sono lo devo alla reazione dei miei zii”. È tifoso dei Reds sin da bambino, ha esordito con quella maglia a 17 anni, ne è diventato il simbolo. Tanto che nel ventennale della strage fu lui il primo a chiedere che il ritorno dei quarti di finale di Champions League contro il Chelsea, in programma il 15 aprile, fosse anticipato. Né Gerrard né nessun altro nel Merseyside potrebbe mai giocare in quel giorno.

Nel week end della commemorazione, il Liverpool vede a un passo la vittoria della Premier. Gerrard vuole scrivere un’altra pagina di storia dei Reds. E lui che ha rischiato di non diventare mai un professionista a causa di un calcione tirato in un cespuglio per liberare un pallone (colpì invece una roncola ferendosi gravemente a un alluce) sa che esistono i segni del destino. Vincere contro il City, proprio ieri, vuol dire molto più di 3 punti aggiunti alla classifica. ‘You’ll never walk alone’, canta Anfield Road gonfiando il petto. Mai così forte come nel giorno più intenso per il mondo Reds e per la sua bandiera in particolare. Gerrard a fine partita è scoppiato in lacrime prima di caricare i suoi in vista delle ultime quattro giornate. C’è una Premier League da conquistare. Il destino si è già espresso.

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