Boston attende la sua corsa. Il terzo lunedì di aprile, in concomitanza con il Patriot’s Day, c’è la Maratona. L’edizione 2014, che si disputerà il 21, sarà la 118ª edizione della maratona più antica del mondo, una delle più prestigiose. Per i top runner vincere a Boston vale una carriera, per gli amatori, portarla a termine è una pietra miliare. I dati e le curiosità non mancano quando una corsa ha una storia così lunga: saranno 250 gli italiani al via e fra loro anche Gelindo Bordin col pettorale 1990 (l’anno del suo trionfo). Il nostro campione, oggi 55enne, è anche l’ultimo europeo nell’albo d’oro, dopo di lui tanta Africa (23 volte Kenia, 3 Etiopia) e una sorpresa della Corea del Sud nel 2001.
Gli americani dopo Greg Meyer nell’83 non hanno più vinto. C’è chi come Bennett Beach, 64 anni da Bethseda, nel Maryland, la corre da 46 anni consecutivamente e dovrà continuare a farlo ancora per difendere il record dall’assalto di chi lo insegue: Timothy Lepore che ne ha 45 sulle spalle ma ha 69 anni e Mark Bauman, coetaneo di Bennett a 44. Tutti e tre presenti anche nel 2014 per inseguirsi ancora.
E’ la maratona delle regole, che limitano la partecipazione agli atleti che hanno un passo ritenuto adeguato: ad esempio io, che di maratone ne ho portate a termine 2, rientrando nella fascia di età “18-34”, avrei bisogno di un tempo di presentazione non superiore alle 3 ore e 5 minuti, realizzato nell’ultimo anno e mezzo (con la mia forma attuale è fantascienza); dagli 80 anni in su, non oltre le 4 ore e 55 che, vista l’età, è comunque un bell’andare. Per partecipare bisogna sudarsela, insomma, altrimenti costa un po’ di più e bisogna sperare che ci sia posto. Come in quasi tutte le altre, per iscriverti devi aver compiuto 18 anni e così per molti bambini e adolescenti diventa la gara dei sogni, quella che vorrai fare da grande, soprattutto se sei di Boston, se sei americano, ti piace lo sport e se almeno una volta hai assistito al miracolo che si rinnova.
La marea umana che annienta le auto e le lascia in garage, purtroppo, solo per poche ore. Un esercito di “vincitori” è arrivato su quel traguardo, oggi in Copley Square, dal 1897 in poi. Non solo i primi intendo, perché in manifestazioni del genere vince chi fa il record della corsa ma anche chi arriva ultimo, vince chi applaude tutti, chi organizza, i volontari e quanti permettono al “miracolo” di rinnovarsi.
L’anno scorso però, il 15 aprile, una coppia di “perdenti” ha provato a spezzare il “sogno” americano ripresentando al mondo il terrore materializzatosi con il rumore sordo di un’esplosione e la viltà cieca di chi si permette di ergersi ad arbitro della vita di altre persone. Dzhokhar Tsarnaev, ora detenuto in un carcere di massima sicurezza, aveva organizzato l’attentato insieme al fratello Tamerlan, rimasto ucciso nella sparatoria durante la caccia all’uomo scatenatasi dopo lo scoppio delle bombe. Nel gennaio di quest’anno il procuratore generale degli Stati Uniti, ha richiesto la pena capitale per l’attentatore di Boston. Questo terrorista ceceno potrebbe perdere anche la vita, sulla sua fine si discuterà ancora ma quel che è certo che lui ha già perso.
L’America ha risposto difendendo il suo sogno, infatti, al prossimo start i partecipanti saranno 36 mila, circa 9 mila in più del 2013. Quasi tutti i 5264 che lo scorso anno non conclusero la gara a causa dell’attentato, saranno al via, hanno una missione da completare. Sono certo che tutti correranno per le tre vittime del 2013 e per i tanti feriti che quel giorno lo portano addosso con ferite, danni permanenti o peggio amputazioni. Martin Richard, 8 anni, era la più piccola fra le vittime delle bombe che hanno portato via il suo sogno su quel marciapiede di Boylston Street. Con tutta la famiglia guardava e immaginava di essere lì, fra una decina d’anni, oltre le transenne a sprigionare quella vitalità e l’atletismo che il suo allenatore di calcio, Harry Benzan, racconta fosse eccezionale. Lo stesso Benzan ricorda che Martin diceva di lui che fosse un buon coach, ma solo perché aveva un’attenzione particolare, una sensibilità innata verso gli altri. Non a caso, la foto simbolo ritrae Martin con in mano un cartello con su scritto “Basta fare male alla gente, pace!” (No more hurting people. Peace!). Tragica e commovente frase che un bimbo di otto anni scrisse a scuola, dopo una lezione sull’uccisione in Florida del 17enne americano Trayvon Martin e che ci lascia in eredità entrando nella storia di questa edizione della Maratona di Boston e delle prossime.
Lunedì sarà la 118ª, la prima dopo l’incubo e oltre 100 persone correranno per Martin e nel nome di Martin in una squadra allestita dalla fondazione creata dalla sua famiglia. Il Team MR8 arriverà in fondo ai 42 chilometri e 195 metri fra gli applausi e le lacrime della sua famiglia. La sorella Jane ha perso la gamba sinistra, la madre Denise ha perso la vista da un occhio e il padre Bill ha problemi uditivi ma saranno lì per Martin, con tutta l’America e non solo, che corre per far ripartire il sogno e relegare l’incubo in quella stanzetta di quel carcere dove più pesante di una sentenza capitale incombe la frase di Martin: “No more hurting people. Peace!”