Secondo il ministero del welfare britannico, nel 2013 44mila italiani hanno richiesto il national insurance number, per poter lavorare nel Regno Unito: un aumento del 66% rispetto all’anno precedente, e soprattutto marcato tra i giovani. Questi sono solo gli ultimi dati sulla famigerata “Fuga dei talenti” o “Fuga dei cervelli”, di cui si sente sempre più spesso parlare, soprattutto con toni allarmistici e spesso confusi.
Generalizzare è sempre troppo facile, e spesso pericoloso. Tuttavia, il fatto che il numero di italiani all’estero stia crescendo esponenzialmente e che siano soprattutto i nostri migliori cervelli a “scappare”, pare ormai abbastanza consolidato.
Con un mercato del lavoro altamente internazionalizzato, passare un periodo all’estero, per studio o lavoro, è ormai quasi normale. Ciò che rende preoccupante la “fuga” degli italiani all’estero non è tanto il numero dei nostri connazionali che fanno le valigie – non poi così alto se lo confrontiamo con altri paesi – quanto il fatto che in pochi scelgono l’Italia come meta. Questo rende il nostro paese un esportatore netto di talenti, che ha enormi problemi ad attrarre ricercatori e altre persone qualificate.
Gli scambi di cervelli sono caratteristici di tutte le economie e sono una componente dei più complessi flussi di beni, informazioni e capitali finanziari tra economie avanzate. Laddove il flusso netto è positivo o negativo, si parla di brain gain o brain drain.
Le migrazioni qualificate producono effetti negativi per i Paesi da cui i flussi hanno origine poiché generano un abbassamento del livello di capitale umano, un gap di rendimento sociale e privato dell’istruzione, e infine esternalità fiscali negative.
Esportando talenti, l’Italia perde risorse. L’economia italiana spende dei soldi per istruire i “cervelli”, ma perde il ritorno su questi investimenti in capitale umano e le cosiddette “esternalità positive” che derivano dalla presenza di un cervello in patria, in primo luogo in termini di produttività e tasse.
L’OCSE ha stimato la spesa annuale per studente universitario in Italia nel 2009 in circa 6.500 euro. Moltiplicando questa cifra per 6.552, il numero di laureati italiani che nel 2008 hanno trasferito la propria residenza all’estero, risulta che nel 2008 l’Italia ha pagato un costo diretto del brain drain di circa 170 milioni di euro (il costo di ogni laureato per quattro anni di istruzione universitaria). A questa cifra dobbiamo poi aggiungere le mancate tasse. Si tratta, ovviamente, di una stima approssimativa—e probabilmente a ribasso visto che non tutti gli italiani all’estero si iscrivono all’AIRE—ma che rende l’idea.
Durante la prima grande ondata di emigrazione, dal 1860 al 1985, sono emigrati 29 milioni di italiani – una media di 232.000 l’anno. Nel 2012, le ‘fughe’ sono state 78.941 – seppur in aumento rispetto agli anni precedenti, questo non è un numero enorme. Nel 2012 gli italiani residenti all’estero e iscritti all’AIRE risultavano essere 4.341.156, di questi circa il 30% sono giovani tra i 20 e i 40 anni.
Un’indagine dell’ISTAT sull’inserimento professionale dei laureati condotta nel 2011 su quanti avevano conseguito il titolo in un’università italiana nel 2007 mostra che il 2,1% degli intervistati dichiara di vivere in un altro paese. La stessa indagine fa vedere che il saldo netto di cervelli (laureati) entranti e uscenti dall’Italia, è negativo dal 2007. La percentuale di persone con istruzione terziaria tra gli stranieri in Italia (12,2%) è tra le più basse nei paesi OCSE, molto di sotto la media generale (23,2%) e di quella dei paesi dell’Europa (18,6%). Invece, sempre secondo l’OCSE, i diplomati universitari italiani residenti all’estero sono 400,000 (7,8%) contro 1,3 milioni (10,8%) britannici, 1,1 milioni (8,4%) tedeschi, e 590.000 (0,8%) americani.
Perché molti italiani se ne vanno? Alla base di questa fuga c’è un mix di fattori economici e sociali: la mancata crescita del PIL italiano, un tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) del 42,3% (dati ISTAT, Aprile 2014), la costante crescita dei contratti temporanei/fenomeno del precariato, aumento del fenomeno del “sottoinquadramento”, scarsi investimenti in ricerca (1,26% del PIL contro una media UE del 2%, dati ISTAT).
A tutto ciò aggiungiamo anche le nette e stabili diseguaglianze sociali nel nostro paese, la mancanza di meritocrazia e la bassissima mobilità sociale, e il gioco è fatto. E per le stesse ragioni l’Italia rimane un paese poco attraente per gli stranieri.
Per ovviare a questo problema i governi che si sono succeduti hanno promosso alcune iniziative. Tra il 2001 e il 2008 sono state previste risorse per il ritorno di ricercatori residenti all’estero, cui viene offerto un contratto temporaneo (da 2-4 anni) e uno stipendio particolarmente generoso.
Nel 2010 è stata promulgata la Legge 238/2010 sul “controesodo”, che prevede incentivi fiscali ai lavoratori under 40 che rientrano in Italia dopo almeno 2 anni di lavoro all’estero. Sono stati lanciati anche vari progetti a livello regionale che offrono finanziamenti per attività imprenditoriali o per studiare e poi rientrare. Nonostante queste iniziative, i risultati sono stati poco soddisfacenti. L’applicazione negli anni è stata lenta e farraginosa, spesso queste leggi non sono chiare, i provvedimenti presi sono fini a se stessi e manca una strategia organica vera e propria che assicuri garanzie per il futuro.
I cervelli italiani all’estero sono quindi una grave perdita economica e un mancato investimento. La perdita di talenti italiani, unita all’incapacità di attrarre cervelli stranieri, penalizza fortemente il Paese nel contesto di un mondo globalizzato che compete sempre più sulla base della conoscenza e dell’innovazione. Se l’Italia vuole davvero essere competitiva nel mercato globale, deve riuscire ad attirare eccellenze dal resto del mondo, e per farlo si devono fornire più opportunità ai talenti, sia italiani che stranieri. Come? Un inizio è aumentare gli investimenti nella ricerca, creare partnerships pubblico-private, rivedere il sistema dei concorsi universitari e dottorati, sviluppare una semplificazione normativa, ma anche dare più priorità a meritocrazia e internazionalizzazione.
di Elena Crivellaro