Immaginate un piatto di spaghetti di grano duro di Gragnano Igp (indicazione geografica protetta). Pensate al sugo di pomodoro e basilico che entra nelle fibre della pasta. Ora immaginate lo stesso piatto, gli stessi ingredienti, ma sostituite l’etichetta Igp con Ogm. Lo mangereste un piatto di spaghetti sapendo che sono prodotti con grano Ogm?
La cucina invade ogni giorno di più il nostro immaginario e il dibattito sugli organismi geneticamente modificati è inevitabilmente sempre più al centro delle discussioni sul futuro del cibo. In Italia quel piatto di spaghetti continueremo a cucinarlo con prodotti non transgenici, ma fino a quando? Lo scorso luglio il governo Letta ha deciso di sospendere la semina di mais modificato, impedendo di fatto a due coltivatori del Friuli Venezia Giulia di piantare il Mon810, mais resistente ad un insetto (pirallide) che danneggia il loro raccolto. Decisione da rivedere nel dicembre 2014.
Questo vuol dire che gli Ogm fanno male e vengono bloccati per questo? Sembrerebbe proprio di no: gli scienziati assicurano che non ci sono rischi per la salute e che i prodotti ogm e derivati non sono dannosi. Non si vedono rischi nemmeno per l’ambiente e anzi è opinione comune che gli Ogm siano un’opportunità fondamentale per ridurre i danni causati dall’agricoltura, grazie alla soluzione di pesticidi sempre più mirati alle esigenze locali.
Ma allora perché proibirne l’utilizzo? È dal 1996 che questo tipo di semina ha dato il via ad un modello agricolo che avrebbe dovuto aumentare la produttività dei terreni in mano agli agricoltori, favorendo le economie locali e garantendo cibo sicuro per tutta la popolazione mondiale. Non è andata esattamente così: l’80% dei terreni coltivati si concentra in 3 Paesi: Stati Uniti, Argentina e Brasile. Terreni che non sono in mano ai produttori locali, ma a 4 multinazionali che, negli Usa, controllano la quasi totalità del mercato di soia e mais ogm. Un giro d’affari pari a 18 miliardi di dollari l’anno. E i contadini che utilizzano gli Ogm? Nel periodo 1995-2011 il costo medio di un campo di mais e soia è aumentato del 300% circa. Inoltre, la semina Ogm crea dipendenza. Uscire dal giro delle multinazionali è davvero difficile, le penali per recedere il contratto sono salatissime.
Quindi è chiaro: il business lo fanno solo i grandi gruppi che possono imporre le proprie politiche di produzione ai piccoli coltivatori. Fallito anche l’obiettivo di una equa distribuzione alimentare: ancora oggi, ogni anno, 65 milioni di persone muoiono perché non hanno abbastanza cibo sul piatto. È tutto qui il problema.
E allora lasciamo pure lavorare ricercatori e studiosi, che hanno il diritto di scoprire e conoscere i confini della scienza alimentare. Ma facciamo un passo indietro sul modello economico: mettiamo in discussione quello imposto agli agricoltori negli ultimi 30 anni. Perché non conviene. O meglio, conviene solo a pochi. Occorre studiare modelli di sviluppo sostenibili che garantiscano lo stesso accesso all’agricoltura e una equa distribuzione del cibo in tutto il mondo.
Quale? Il “local” per esempio. E se vi sembra una soluzione solo eticamente corretta, vi sbagliate. Un’azienda che produce prodotti di qualità e ha una filiera corta, fa un servizio anche al territorio, creando opportunità di lavoro e rispetto dell’ambiente. Non è un caso che la spesa per i prodotti locali – su cui il nostro Paese sta puntando molto – l’anno scorso sia cresciuta dell’8%, nonostante il consumo per gli alimenti in generale stia calando.