Una morte annunciata più volte nei mesi scorsi, con i social network impazziti e poi sollevati dalla smentita di rito. Ma oggi Gabriel García Márquez, uno dei più grandi romanzieri del Novecento, è morto davvero. Ricoverato in un ospedale di Città del Messico dal 3 aprile, lo scrittore colombiano di Cent’anni di solitudine, Cronaca di una morte annunciata e L’amore al tempo del colera, è morto a 87 anni. Insignito del Premio Nobel nel 1982, García Márquez ha trascorso la sua lunga vita tra letteratura e impegno politico, appoggiando con passione, e a costo di attirare su di sé le critiche di parte dell’opinione pubblica occidentale, alcune cause rivoluzionarie latinoamericane.
Negli anni Settanta, al culmine della sua carriera letteraria, era tornato al giornalismo sul campo, per reazione al colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile. E negli stessi anni aveva fatto parte del tribunale Russell, occupandosi principalmente dei diritti umani in Cile. La promessa di non scrivere più romanzi fino alla fine della dittatura cilena viene infranta nel 1986, con la pubblicazione di Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile, vicenda vera di un cineasta in esilio che torna a Santiago gabbando i controlli, per documentare la situazione cilena.
Negli ultimi anni, si era appassionato all’esperimento socialista-bolivarista venezuelano, anche se non condivideva tutte le idee di Hugo Chavez, e si era nuovamente scagliato contro l’approccio proibizionista della Colombia nei confronti delle droghe. Con la morte di García Márquez scompare uno dei migliori narratori della realtà del Sud America, un esempio tra i più efficaci di quel misto di talento letterario e impegno politico che ha attraversato tutto il tormentato Novecento del subcontinente latinoamericano.