E’ appena stato condannato ed è appena stato candidato. L’idea marcia che la politica possa permettersi tutto, possa affrancarsi da qualsiasi obbligo e anche da qualunque minimo senso di responsabilità, conduce diritti al caso di Giuseppe Scopelliti, governatore della Calabria condannato in primo grado meno di un mese fa a sei anni di reclusione con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. L’ipotesi che venisse azzoppato dai giudici era così concreta, perché evidenti ed enormi le responsabilità nella gestione fallimentare del comune di Reggio Calabria, che da tempo risultava annunciata l’exit strategy: non potendo più stare in Regione, perché la legge lo vieta, si corre per le Europee, perché la legge lo permette. Prima di chiedersi perché un uomo politico non accetta di fermarsi mai, riflettiamo sulla ragione che ha spinto il ministro dell’Interno, il rappresentante dell’ufficio che ha sciolto il comune di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose, a una simile spregiudicatezza. Alfano lo candida non solo perché è affamato di voti, e sa che Scopelliti dalla Calabria gliene porterà un bel pacco, ma perché il suo comportamento non verrà giudicato da alcuno degli alleati. Non fiaterà nessuno, da Renzi in giù zitti e mosca. “Fatti li cazzi tua”, direbbe il Razzi di Crozza. E l’opinione pubblica accoglierà con disinteresse, ammesso che la notizia la raggiunga, l’episodio.
L’immoralità di questa vicenda è così evidente, nitida, impossibile da camuffare o trafugare che ci obbliga a fare i conti con una parte del Paese così straordinariamente accomodante da apparire collusa, connessa, corresponsabile. Alfano che ha avuto la faccia di bronzo di comunicare l’arresto di Dell’Utri, col quale ha governato vent’anni, adesso raddoppia sapendo che non pagherà alcun dazio. Anzi! Accuseranno di giustizialismo coloro che affrontano il problema, di essere “manettari”: i giornalisti che denunciano la gravità di questa condizione. Le parole si possono truccare, la realtà no.