Non solo la fabbrica del ghiaccio, il plotone di esecuzione, Remedios la bella, Rebeca che mangia la terra e le mille altre immagini scolpite nella mente di chi ha amato i suoi romanzi. Gabriel García Márquez, morto a 87 anni a città del Messico, è stato anche un grande giornalista e molti dei suoi articoli si possono leggere in ponderose raccolte.
Diffidente verso le interviste, che se proprio necessarie andavano poi “cucinate in un’altra pentola”, amava sopra ogni cosa il reportage, “il genere capitale del miglior mestiere del mondo”, come scrive in “Vivere per raccontarla” (Mondadori 2002), l’autobiografia degli anni giovanili in cui ripercorre tra l’altro i primi anni da cronista squattrinato e innamorato della letteratura in diverse città della Colombia. Tempi pionieristici: a El Heraldo di Barranquilla, ricorda, si batteva a macchina su bobine di carta lunghe e strette, e il direttore ordinava per esempio “un reportage di un metro mezzo”.
Nel 1954 una serie di smottamenti provoca decine di vittime a Medellín – città allora molto lontana dalla fama sinistra che avrebbe acquisito per l’omonimo cartello del narcotraffico – ma le notizie che arrivano sono confuse e frammentarie. “Perché non va a Medellín e ci racconta cosa cazzo è successo lì?”, gli chiede spiccio il caporedattore di El Espectador di Bogotà José Salgar detto “la scimmia” (nella foto insieme allo scrittore), che nel 1989 scamperà a un camion bomba del padrino Pablo Escobar e morirà serenamente nel 2013 a 93 anni. Che cosa fosse successo in effetti non lo capiva nessuno perché, racconta Márquez nelle sue memorie, “lo scandalo della stampa, il disordine delle autorità e il panico dei danneggiati avevano determinato grovigli amministrativi e umanitari che impedivano di vedere la realtà”.
Ma quando arriva a Medellín la tragedia è successa da oltre dieci giorni e di fronte alle croci dei morti seppelliti in fretta il futuro Nobel per la letteratura pensa di gettare la spugna. Poi l’intuizione, immediatamente trasmessa al tassista: “Mi porti dove ci sono i vivi”. Così Márquez dipana la verità sulla tragedia. Un piccolo smottamento iniziale aveva travolto una madre con tre bambini. La folla di curiosi accorsi e i troppi volontari affannosamente impegnati in ricerche caotiche avevano poi provocato una seconda frana più grande e letale.
Negli anni Cinquanta García Márquez è inviato in Europa, e anche in Italia. Tra le altre cose segue, per i devoti lettori colombiani, papa Pio XII. Nel luglio del 1955 scrive un reportage (riportato integralmente in “Dall’Europa e dall’America”, Mondadori 2001) sulla partenza del pontefice per le vacanze, in un torrido pomeriggio romano: “Mentre per le vie di Roma i robusti operai corrono come matti sulle loro Vespe, senza camicia e con i pantaloni corti, Sua Santità se ne andava in vacanza nella sua auto ermeticamente chiusa, impartendo benedizioni a dritta e a manca, senza curarsi del caldo”. L’auto, nota Gabo, non ha l’aria condizionata. Scrive di Sofia Loren e Gina Lollobrigida al Festival di Venezia, nonché della “spampanante attrice” Silvana Pampanini. Ma anche del caso Montesi, il grande giallo italiano di quegli anni, che il maestro del realismo magico ricostruisce con inappuntabile stile cronistico.
Márquez attribuisce alle “Mille e una notte”, libro fortunosamente rinvenuto “scucito e incompleto” in un baule, la scintilla della passione letteraria. E nel giornalismo riesce a conservare lo stile che ha reso grandi i suoi romanzi, a cominciare dall’intuito per i dettagli. Macondo era nella realtà il nome di una piantagione di banane intravisto da bambino dal finestrino di un treno, “ma solo da adulto scoprii che mi piaceva la sua risonanza poetica”. Così come è fulminante la “scritta triste” che lo accoglie sui tram della capitale Bogotà quando ci arriva per la prima volta: “Se non hai paura di Dio, abbi paura della sifilde”. Tra le scelte stilistiche più curiose, l’abolizione totale degli avverbi che (anche in spagnolo) finiscono in “mente”: “La pratica finì per convincermi che gli avverbi di modo con terminazione in ‘mente’ sono un vizio che impoverisce. Sicché cominciai a eliminarli ogni volta che mi uscivano dalla penna, e mi convincevo sempre più che quell’ossessione mi costringeva a trovare forme più ricche ed espressive. Da molto tempo nei miei libri non ce n’è nessuno, se non in qualche citazione testuale”. Nelle pagine di “Come si scrive un racconto” (Giunti 1997), dove il premio Nobel riversa la sua esperienza di direttore e docente della Scuola internazionale di cinema e di televisione di San Antonio de los Baños, a Cuba, si capisce la ricetta della sua narrazione di giornalista e di scrittore: ingredienti semplici, ma cucinati con la mastria del grande chef.
Nell’era dell’informazione televisiva e internettiana, colpisce l’ostilità di Gabriel García Márquez a qualsiasi trasposizione cinematografica del suo capolavoro “Cent’anni di solitudine”. Nonostante avesse frequentato il Centro sperimentale di cinematografia di Roma con Cesare Zavattini, rivendicava il primato della parola, convinto che nessuna macchina da presa avrebbe potuto eguagliare il potere evocativo della sua macchina da scrivere. E non esitò a sbattere in faccia la sua irritazione a Werner Herzog, che in “Fitzcarraldo” aveva infilato la scena di una nave incagliata in mezzo alla foresta, che richiamava in modo netto una delle tante magie narrative di “Cent’anni di solitudine”. Nel raccontare la propria esperienza da giurato al Festival di Cannes del 1982 (il brano è riportato in “Taccuino di cinque anni”, Mondadori 1994), Márquez la racconta così: “Quando Werner Herzog mi telefonò per dirmi, con una cortesia tutta sua, che gli sarebbe piaciuto fare qualcosa con me, non riuscii a evitare lo sgarbo di rispondere: ‘Non si preoccupi, Herzog. Lo abbiamo già fatto’. Gli chiedo pubblicamente scusa”.