I veri costi della politica stanno in un grafico elaborato per conto di Crescita e Libertà da un ex consulente del Ministero dell’Economia, Amedeo Panci.
I dati Istat e la nota di aggiornamento al Def 2013 ci danno uno spaccato impressionante di come si sia ingrandita la spesa per acquisti di beni e servizi. Nel 1999 era pari a 78.459 miliardi, nel 2000 passa a 86.268, a 94.683 miliardi nel 2001 per raggiungere i 135.993 miliardi di euro nel 2011: in 12 anni è quasi raddoppiata.
È singolare peraltro che l’aumento non abbia risentito della riforma del titolo V della Costituzione: i picchi maggiori di aumento della spesa per acquisti sono stati infatti nel 2000 e nel 2001, più 16 miliardi in soli due anni. Non sembra dunque aver modificato il quadro complessivo l’andamento delle spese delle regioni conseguente alla introduzione del federalismo. Anzi, la crescita della spesa negli anni successivi alla riforma subisce un rallentamento.
Il dato drammatico è che questo stato di cose era stato denunciato fra gli altri da un emendamento alla Finanziaria, il 3.0.2 al ddl 1790/2009, ben 5 anni fa, emendamento che venne bocciato e che prevedeva di parametrare i contratti al 2001, maggiorati del costo dell’inflazione. Se fosse stato approvato si sarebbe potuto attuare un risparmio di circa 20 miliardi all’anno a partire dal 2010.
Le responsabilità politiche dei vari governi che si sono succeduti dalla fine degli anni ’90 ad oggi sono enormi. Non sembra che il governo Renzi abbia colto nella sua drammaticità la questione: i tagli alla spesa per acquisti sono infatti lineari e marginali, mentre inaccettabili sono i pesanti tagli alla sanità e agli stipendi di alcune categorie del pubblico impiego.
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