L'uscente Paolo Scaroni voleva spingere sull'estrazione dello shale gas. Ma l'Europa fa resistenza a causa dei rischi per l'ambiente. E dall'Africa arrivano cattive notizie: in questa fase nessun Paese può sostituire le forniture di Mosca. Il nuovo ad Claudio Descalzi e il presidente Emma Marcegaglia dovranno studiare un "piano C"
Paolo Scaroni, amministratore delegato uscente di Eni, è di ritorno da Kiev. Si è incontrato con Yuri Prodan, il neo ministro dell’energia dell’Ucraina, che gli ha chiesto la disponibilità dell’Italia a investire maggiormente sull’onshore. Ma l’ex ad del Cane a sei zampe ha tenuto a ribadire la tesi che sostiene da tempo: bisogna spingere l’acceleratore sullo shale gas. Una strada che, come Scaroni ha detto in una recente intervista al Financial Times, l’intera Europa dovrebbe percorrere per affrancarsi da Mosca. Oltre il 30% dell’approvvigionamento Ue, infatti, arriva dalla Russia, ma ci sono Paesi come l’Austria e la Slovacchia la cui dipendenza rasenta il 50 per cento. Troppo, almeno a parole. Perché in realtà nulla si è fatto, finora, per sganciarsi dal gas di Putin. E’ vero, come sostiene Scaroni, che il gas di scisto potrebbe essere una strada alternativa (Obama insegna). Tuttavia l’Europa ha più volte sottolineato i rischi ambientali legati alla sua estrazione. Per l’Italia e per l’Eni sarebbe opportuno almeno studiare un piano C. Invece la storia degli ultimi due anni sembra renderci sempre più dipendenti da un ipotetico shale gas e da un concreto e invasivo rapporto con Mosca. Basta dare uno sguardo d’insieme all’influenza italiana in Africa e nel Maghreb.
Dopo la guerra in Libia e la morte del dittatore Mohammad Gheddafi i contraccolpi del terremoto geopolitico si sono fatti sentire in tutta l’area. Soprattutto in Algeria e nel Mali. Il locale ministro delle miniere Amadou Sy Baby il 18 dicembre 2012 ha firmato un decreto con cui si è ripreso il blocco petrolifero numero 4 che nel 2006 era stato dato in concessione all’Eni e alla Sipex, società controllata dall’algerina Sonatrach. Era l’ultimo di proprietà degli italiani nel bacino Taoudeni, finito per un periodo sotto il controllo dei ribelli Tuareg dell’Mnla (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) e dei militanti islamici di Ansar Dine. Quel giacimento è stato poi assegnato ai francesi di Total, che l’avrebbero perso se Francois Hollande non avesse deciso di portare i Legionari e il resto d’Europa a far la guerra nel Paese. Lo scontro, dimenticato dai media, prosegue. Non sappiamo come andrà a finire, ma sicuramente è escluso un ritorno dell’Italia.
Per quanto riguarda la Libia, il sud del Paese resta ancora fuori dal controllo delle deboli autorità locali, mentre dalla parte orientale, la Cirenaica, dove si trova l’80% delle riserve petrolifere, arrivano segnali di crescente disgregazione. E l’attentato al console italiano di Benghazi di un anno fa non è certo un segnale di distensione. La presenza italiana in Algeria, infine, ha subito diversi contraccolpi. Qui non sono state sparate pallottole. Ma pesano le inchieste giudiziarie. Non tanto quelle aperte dalla procura di Milano, ma quella che ad Algeri nel novembre del 2012 ha portato alle dimissioni del presidente della società petrolifera di Stato Mohamed Meziane e alla denuncia di 15 dirigenti accusati di corruzione e malversazione. La vicenda ha visto coinvolti due vicepresidenti della Sonatrach, Benamar Zennasni e Belkacem Boumedienne, e l’ex direttore della banca Cpa (credito popolare algerino) Hachemi Meghaoui. Col risultato che i nuovi vertici e funzionari, secondo indiscrezioni, sarebbero più filo francesi dei precedenti. Non certo una buona notizia per Eni, che recentemente ha anche ufficializzato la volontà di preparare l’uscita dalla Nigeria. Nell’Africa Sub Sahariana, poi, restano fermi gli investimenti in Angola, mentre in Mozambico, dove la presenza del Cane a sei zampe rimane comunque molto forte, sono stati avviati piani di cessione. Nel 2013 la China National Petroleum Corporation si è presa (dall’Eni) il 20% dell’area 4 per un controvalore di circa 4 miliardi di dollari e a inizio aprile è stata annunciata la vendita di un altro 15%.
Niente di nuovo: Scaroni aveva annunciato le dismissioni all’interno del piano strategico 2014-2017. Ma certo è che, scorrendo la mappa dell’Africa, non si trovano alternative adeguate al dominio russo. Bisognerebbe fare un salto di migliaia di chilometri per scoprire un investimento e un business concorrenziale al mercato di Mosca. Si tratta del progetto di Kashagan in Kazahstan. Ma qui, dopo dieci anni e circa 41 miliardi di investimenti complessivi, la produzione dovrebbe ripartire solo in queste settimane. Il condizionale è d’obbligo. I problemi tecnici raccontati dai quotidiani locali sarebbero ancora tanti. Risultato finale? L’Italia non sembra proprio in grado di osservare la politica di Putin con distacco. Figurarsi dichiarare l’autonomia energetica. Il fatto, poi, che a Scaroni succederà l’attuale direttore generale Claudio Descalzi sembra confermare l’ipotesi che al cambio della guardia non corrisponderà un cambio di strategie. A meno che la neo presidente Emma Marcegaglia non stupisca il Paese con effetti speciali.