I dettagli della notizia sono ancora da chiarire, ma è ormai quasi certo che il vicepreside del liceo di Seoul da cui provenivano gli studenti morti o dispersi nel naufragio si sia suicidato a poche ore dal naufragio del traghetto Sewol. Il gesto di Kang Min-Kyu – uno dei centosettantanove superstiti del naufragio, impiccatosi proprio vicino al luogo della tragedia, nell’isola di Jindo, è di un’angosciante forza simbolica, anche se molto lontano dalla cultura di noi europei e più vicino a quella visione nella quale gli individui sono ben più di noi schiacciati dal peso della responsabilità individuale, dall’idea di una colpa sempre incombente e soprattutto dalla convinzione, che si traduce spesso in suicidi, che di fronte a una catastrofe nella quale si è implicati, pur senza colpe, non possa esserci alcuna risposta all’altezza dell’accaduto se non la decisione di porre fine alla propria stessa vita.
La morte del vicepreside mi ha colpito perché racconta di un altro modo di concepire il rapporto tra azioni umane, colpe e società nella quale un evento tragico accade. L’accento spostato dalla “struttura” alla persona, dal collettivo al singolo, nel senso che di una lesione collettiva, come ad esempio un naufragio che ha sconvolto l’intera nazione, vengono chiamati a rispondere gli individui, proprio perché il collettivo conta più dei singoli e così le sue ferite rispetto a quelle delle persone. Ma quel gesto racconta anche di una cultura dove c’è ancora forte – anche se spesso in maniera eccessiva, con un senso di tragedia continuo – l’idea che la riparazione, così come la guarigione, a volte sia impossibile.
Questa visione della vita e della morte è molto distante da noi e forse difficile da comprendere, specie per il suo portato angoscioso. Eppure, per contrasto, fa riflettere su quanti nel nostro Paese distruggano questo senso di rispetto verso la collettività, a partire dalle cartacce che invadono i parchi fino allo sperpero di fondi pubblici. Ma manca troppo spesso anche l‘assunzione di responsabilità – con l’accettazione delle relative sanzioni – dei colpevoli, che anche quando vengono condannati non solo sembrano essere inconsapevoli delle conseguenze devastanti che hanno causato – basta evocare il nome di Schettino – ma al tempo stesso continuano a negare, senza che ci sia mai quell’ammissione di colpa così fondamentale per ristabilire la giustizia e insieme tutelare il bene comune.
Infine questa storia mi colpisce anche perché racconta di un altro modo di porsi di fronte a a un fatto pubblico che produce morte e disperazione tra chi resta. Un modo estremo, certo, ma come è estremo per certi versi il nostro: e cioè la leggerezza con cui dimentichiamo tragedie che lasciano segni che dureranno negli anni a venire, come nell’analogo caso della Concordia, come se la morte di tanti potesse essere rapidamente archiviata, e soprattutto emotivamente rimossa a favore della celebrazione mediatica e delle polemiche sulle colpe. Al contrario, uccidersi di fronte all’apocalisse segnala che l’irrimediabile è, appunto, qualcosa di inaudito, da quale non si può tornare indietro. Qualcosa che richiederebbe almeno un lutto collettivo duraturo e, insieme, la consapevolezza del male commesso.