I fondi – raccolti da risparmiatori convinti di godere di garanzie statali – spesso finanziano palazzinari in bolletta, aziende pubbliche alla canna del gas (ad esempio miniere di carbone o acciaierie) e direttamente o indirettamente autorità locali disinvolte. Sul fenomeno governo e Banca centrale avevano sostituito saracinesche alle palpebre, illudendosi che la crescita impetuosa, a cui le fiduciarie fornivano propellente, avrebbe mondato le conseguenze nefaste. In cinque, ruggenti, anni il debito totale in Cina, secondo l’agenzia Fitch, si è gonfiato fino a raggiungere il 220 per cento del Pil a fine 2013, dal 130 per cento nel 2008, un aumento che in valore assoluto risulta pari all’intero settore bancario degli Usa. Metà di questo aumento andrebbe attribuito alla finanza ombra.
Purtroppo gli steroidi macroeconomici da investimenti sballati (pubblici o privati) si sciolgono sempre in una valle di lacrime e la Cina del laissez-faire comunista non fa eccezione. Persino il Fmi (di solito tenero con la Cina) ha avvertito che gli attivi marcescenti vanno rimossi e le catene di Sant’Antonio spezzate. Le autorità da qualche mese hanno intrapreso l’ingrato compito. Seguendo il dettato maoista sul colpirne uno per educarne cento hanno lasciato fallire alcuni pesci piccoli, effetti scenici ribattezzati “Potemkin defaults” dalle avanguardie della blogosfera che hanno sostituito quelle del proletariato. Gli squali grossi invece vengono neutralizzati con cautela e circospezione attraverso salvataggi coordinati, ad evitare un corto circuito stile Lehman. Inoltre i nuovi investimenti nelle trust companies non possono essere più utilizzati per pagare i rendimenti di quelli vecchi e ad ogni investitore va assegnato un conto segregato che fornisca dettagli sulle singole esposizioni piuttosto che il riferimento opaco ad un portafoglio di titoli malamente assemblato.