La notizia è devastante: un milione e centomila famiglie senza redditi da lavoro. Quasi mezzo milione di coppie con figli. Duecentomila nuclei consistenti in un genitore solo con figli. Campano con qualche aiuto delle famiglie di origine, lavoretti in nero? Forse, in parte. Ma il dramma è che la crisi economica ha aperto ferite profonde nel corpo sociale. Ferite enormi, che non si sanano sperando nel lento incremento di qualche frazione di Pil.

Qui ci sono milioni di persone (si badi: milioni) che annaspano mese per mese per restare a galla. Quattro milioni si mettono in fila per pasti caritativi. È una tragedia in Italia, non in un paese desolato del Terzo mondo. Domani la notizia sarà archiviata? È urgente fermarsi a riflettere. Lo stato di indigenza e di “fame”, che si annida ormai corposamente nelle pieghe di tante società avanzate, non si cura lasciando a se stesso il meccanismo economico secondo la ricetta neoliberista in auge da trent’anni. Ricetta che considera ininfluente l’esistenza di consistenti sacche di povertà.

Ottanta euro di aumento agli stipendi bassi, tagliare sprechi, limitare i superstipendi dei manager statali sono passi nella direzione giusta e segni di sensibilità sociale. Dare 50 euro ai barboni è un esempio morale.

Però qui serve qualcos’altro. Un rimodellamento del sistema economico-finanziario (come avvenne nel secolo scorso negli Usa con il New Deal di Roosevelt e la creazione del Welfare in Europa) mettendo al centro la non-accettazione della povertà strutturale. Papa Francesco lo sottolinea spesso, mettendo in guardia dal rischio di esplosioni di violenza. Non può rimanere un’esortazione. Economisti e politici devono tornare a pensare a un nuovo modello di sviluppo. Perché così non va. Guai a ignorare la rabbia dei poveri.

Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2014

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