La premeditazione è documentata da una delle sterminate interviste senza domande riservategli dal Corriere della Sera, dall’evocativo titolo “La mia storia calpestata”. L’onorevole professore Giuliano Amato – reduce dalla doppia delusione nella corsa al Quirinale prima e a Palazzo Chigi poi – manifesta il proposito di sfruttare l’impopolarità anche per risollevare le sorti professionali di sua figlia Elisa dando la caccia ai “diffamatori di professione”: “Non voglio fare nomi, perché tanto ci pensa mia figlia, che fa l’avvocato di suo padre, a fare i nomi. L’unica ragione per cui sono contento della loro esistenza è che, in un periodo di magra professionale, il reddito di mia figlia già ha cominciato a trarre profitto da questi incorreggibili propalatori di falsi. (…) Mia figlia si lamenta, dice che sono diventato un lavoro pesante per lei, ma è soddisfatta, perché le vince tutte”.
Qualche giorno fa, sulle ali dell’entusiasmo, l’avvocato Elisa Amato ha pensato bene di chiedere al Fatto Quotidiano 500mila euro di danni per sedici-articoli-sedici, successivi, si badi bene, a quell’intervista e alla designazione del padre quale giudice costituzionale. Una richiesta che, ove accolta, si configurerebbe come aggressione giudiziaria, la stessa già censurata dalla Corte di Strasburgo quando ha avvertito gli Stati europei che sanzioni pecuniarie sproporzionate e, quindi, anche risarcimenti ingenti possono avere un effetto deterrente sulla libertà di stampa e perciò comportano una pressoché automatica condanna da parte di Strasburgo. Un processo omnibus, quello voluto da Amato, per quella che definisce “una inspiegabile campagna diffamatoria condotta a decorrere dal settembre 2013 con il pretesto della nomina a giudice della Corte costituzionale”.
Questa frase illumina la concezione amatiana della libertà di stampa e del diritto di critica. La nomina a una delle cariche di maggior potere dell’ordinamento repubblicano comporta per la libera stampa degna di questo nome non il diritto ma l’obbligo di passare al setaccio storia e personalità del prescelto, e di sottoporle a un vaglio tanto più severo quanto è più delicata la funzione pubblica ricoperta. Tutto ciò risulta inspiegabile alla concezione personale che Amato ha dell’informazione, in ciò aiutato dall’esperienza che lo induce evidentemente a ritenere obbligatorio per tutti salutare la sua ennesima nomina con gli stessi toni da servile encomio usati dalla grande stampa amica. Perciò accusa incredulo Il Fatto di aver voluto “lo smantellamento, pezzo per pezzo, del prestigio e del rispetto che quest’ultimo si era costruito e guadagnato nel corso degli anni” e “la preordinata ed artificiosa costruzione, al contrario, di un personaggio sordido, pienamente addentro alla parte corrotta e prepotente del mondo politico, prima asservito a Craxi e poi incline ad abusare della propria posizione di potere per assicurarsi incarichi di ogni genere e vantaggi economici esagerati”.
Nominandosi giudice di se stesso, Amato pretenderebbe di vietare al Fatto di ricordare i suoi trascorsi economici, politici e non solo; la sua pensione d’oro e il vitalizio da parlamentare; la telefonata in cui insiste con il presidente del Monte dei Paschi Giuseppe Mussari perché continui a finanziare il torneo del circolo tennistico di Orbetello a lui caro (“mi vergogno a chiedertelo”); la telefonata alla vedova del defunto sottosegretario socialista Paolo Barsacchi, chiamata come teste, per consigliarle di tacere i nomi nel processo per tangenti dove alcuni esponenti del Psi, di cui è all’epoca vicesegretario, avrebbero voluto dare la colpa al marito morto. Come si permette un giornale di mettere in dubbio la natura angelicata del potente di turno? Una particolare severità del giudice è invocata proprio per “il prestigio sino ad oggi riconosciuto alla figura del Prof. Amato per le proprie doti professionali”. Insomma, da una parte si chiedono 500 mila euro al Fatto perché i suoi articoli, piacendo e diffondendosi, creano danno alla reputazione di Amato; dall’altra , si mette in conto al Fatto – per farne risaltare l’indisciplina – l’ampia e consolidata benevolenza di altri media. Non solo: si chiede al giudice di mettere in conto al Fatto , nel valutare il danno, anche la “notorietà del soggetto leso”, come se non fosse proprio quella notorietà a imporre alla stampa di occuparsi di lui.
Amato ha un’idea di sé molto alta, come dimostra il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 20 del 1974 che circoscrive la libertà di espressione nei limiti imposti dalla tutela di altri beni “costituzionalmente rilevanti”. Evidentemente ritiene di far parte dell’elenco dei tesori tutelati, Giustissimo, solo che quella sentenza cita “il prestigio del Governo, dell’Ordine giudiziario e delle Forze Armate”, e non quello degli ex bracci destri di Bettino Craxi. E neppure dei giudici costituzionali, in quanto tali. Ai quali potrebbe capitare di occuparsi persino della causa che riguarda uno di loro, che non avrebbe neppure l’obbligo di astenersi : se il giudice civile chiamato a occuparsi della causa dovesse sollevare una questione di costituzionalità, si potrebbe davvero confidare in un giudizio sereno e super partes?
da Il Fatto Quotidiano del 22 aprile 2014