L’Italia è un Paese “a museo diffuso”, uno ogni 13mila abitanti, circa il triplo della Francia. Disponiamo di 4.588 tra musei, aree archeologiche e monumenti, ma la verità è che la maggior parte del nostro patrimonio non è calcolato perché non valorizzato. Basti pensare che solo in Sardegna vi sono più di 7.000 nuraghi, senza contare le leggendarie case delle fate, menhir, betili, dolmen, pozzi sacri e tombe dei giganti.
Secondo l’Ue “la cultura è il nostro petrolio, ma ce ne freghiamo”. Siamo all’ultimo posto in Europa per la spesa in cultura, la figura dell’archeologo non è tutelata e ignoriamo la Convenzione europea per la salvaguardia del patrimonio. Nel 2012, abbiamo rimandato indietro più di 2 miliardi di fondi Ue riservati a migliorare l’offerta culturale nel sud. Quello del turismo culturale è un settore che presenta un trend di crescita che pare non conoscere flessioni, eppure è stato a lungo snobbato, portando zone ad alto potenziale turistico, come il Mezzogiorno, ad investire su di un’industria rivelatasi poco competitiva, lasciando lo sviluppo turistico e culturale in balia degli eventi.
Il crollo di Pompei ne è un esempio eclatante, solo nel 2013 è stato varato un piano di recupero atteso da 30 anni. Tuttavia Pompei, rispetto a gran parte dei siti sardi, potrebbe essere definito come un fiore all’occhiello della manutenzione. Non solo il patrimonio nuragico crolla su se stesso, ma viene spesso vandalizzato o peggio usato come discarica. Non c’è la volontà di investire, né di scavare o di tutelare, e le poche attrattive curate non sono adeguatamente promosse.
Il complesso nuragico Su Nuraxi di Barumini è il più grande dell’isola, patrimonio Unesco e luogo in cui alcuni studiosi hanno riconosciuto le rovine di Atlantide. Pensate però che ci sono zone come il Marghine-Goceano che, rispetto a Barumini, presentano la più alta densità di emergenze archeologiche (0,50 per kmq), quasi tutte monumentali. In queste zone sono state svolte indagini topografiche, ma non ci si è mai adoperati per scavare, salvaguardare o promuovere gran parte dei siti. Su Nuraxi tuttavia, grazie all’impegno della Fondazione Barumini, viene tutelato ed è visitato ogni anno da 100mila persone. Perché però Barumini attrae appena un sesto della Valle dei Templi? Perché i soli principali musei statali di Londra attraggono il 73% degli ingressi totali nei nostri 420 istituti pubblici?
La risposta pare evidente, e non sorprende vedere che gli scarsi investimenti non siano altro che lo specchio di un’incerta capacità amministrativa, di una mancata digitalizzazione e apertura verso l’esterno. Solo il 50% dei musei ha un sito web, solo 16% di loro è attivo nelle community e solo il 40% ha personale che parla inglese. Il turismo rappresenta il 50% dell’e-commerce italiano, eppure siamo tra i meno informatizzati d’Europa. Secondo la Oxford Economics, se sviluppassimo l’economia turistica investendo sui contenuti online e allineandoci con la media europea, il Pil crescerebbe di circa l’1% e la domanda turistica del 10%, un dato quantificabile in circa 250mila nuovi posti di lavoro.
Su questa linea si muove Nurnet, la rete dei nuraghi con il progetto di sviluppare con risorse minime, tecniche informatiche tipiche dei Gis e dei social network, una rete di informazioni fondata sulla cultura sarda nuragica. Nurnet propone infatti itinerari nostrani alla ricerca di quest’identità storica, creando, attraverso l’iniziativa “Adotta un Nuraghe”, mappe di localizzazione e salvaguardia delle strutture, rendendole facilmente accessibili e agevolando il turismo archeologico, un campo quasi del tutto inesplorato e capace di allargare il turismo all’entroterra e a tutte le stagioni. Ovviamente l’adozione non costituisce alcun diritto sul monumento, ma solo una responsabilità di tutela, digitalizzazione e condivisione del bene.
Giovanni Lilliu, scopritore di Su Nuraxi, dipingeva l’isola come caratterizzata dalla “costante resistenziale sarda”, ovvero una suddivisione tra il popolo costiero, collaborazionista dei coloni, e il popolo dell’entroterra, custode della più autentica tradizione culturale e chiuso verso l’esterno. Questa distinzione è tuttora evidente e si riscontra in particolare a livello turistico, nel gap tra il turismo costiero e rurale, tra la costa Smeralda e l’identità più profonda della Sardegna. Un gap in cui sta la chiave di volta dello sviluppo e della tutela dell’isola. Se la Sardegna salvasse l’archeologia, l’archeologia salverebbe la Sardegna.
di Gian Luca Atzori e Maura Fancello