Elena, Ecuba, Andromaca, Cassandra sono prima di ogni altra cosa donne: madri, mogli, amanti, figlie, schiave di un mondo sfigurato da dieci anni di guerra a Troia. Nello scenario unico del teatro greco di Siracusa – costruito nel V secolo avanti Cristo e nel quale Eschilo rappresentò per la prima volta le Etnee – rivive il dramma di queste donne tragiche, archetipi femminili senza tempo ma rigonfi di storia nostra, greca, italica, come se quelle figure di donne estreme riflettessero i caratteri ancestrali della donna mediterranea. Verso Argo è il dramma che ha aperto la stagione del teatro di Siracusa il 16 aprile e celebra i cento anni del festival che dal 1914 ha fatto rivivere la tragedia classica in questa città.
Arrivo alle cinque del pomeriggio. L’aria è tersa e la luce perfetta, l’architettura si fonde nel territorio e abbraccia gli spettatori con un’intelligenza nitida, precisa che permette la fusione antica tra occhio, natura e cultura, quel
triangolo di perfezione percettiva che fa sì che la Grecia classica sia ancora oggi uno dei perni della nostra civiltà ormai confusa e globale.
Il testo è di Eva Cantarella, una delle più grandi classiciste italiane, esperta di diritto greco e romano, professore alla Statale di Milano. E’ una ricostruzione, a partire da fonti classiche, di questi personaggi femminili, un patchwork di frammenti di testo che ricrea e reinterpreta le figure tragiche delle donne greche e troiane che popolano le opere di Eschilo, Euripide, Omero, Gorgia, Teocrito, ma anche delle lettere immaginarie di Ovidio nelle Eroine.
La scena è dominata da un’imponente scultura di Arnaldo Pomodoro, una testa di cavallo che sovrasta i personaggi evocando l’astuzia di Odisseo che condannò la città di Troia.
Ventrité attrici e attori dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico di Siracusa danno vita a un coro in movimento che si agita come il magma di un vulcano sotto la direzione della coreografa Serena Cartia, che ha saputo rappresentare in mosse sincopate le scosse telluriche provocate dal dolore dei personaggi.
Ecuba (Lucia Sardo), regina di Troia, madre di Ettore, di Paride, di Cassandra, piange le sorti della sua città, dei suoi figli e del nipote Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, ucciso dai Greci che lo gettarono dalle mura di Troia perché la stirpe di Priamo non avesse discendenti. Si attarda sulle spoglie insanguinate del bambino, posate sullo scudo del padre. Unica pietà dei Greci e di concederle di dargli sepoltura. Piange la figlia Cassandra (Evelyn Famà), costretta alla schiavitù in casa di Agamennone, cerca di calmarne il delirio. Non le resta più niente, né il trono, né il marito, né i figli. Dovrà servire da schiava Odisseo, il Laerziade dalle molte astuzie, che vinse la guerra con l’inganno.
Elena (Mita Medici) è colei che provocò la guerra: donna bellissima e fatale, moglie di Menelao (Massimo Cimaglia), viene rapita da Paride, infatuato dalla sua bellezza divina. Davanti al marito vincitore sull’amante che deve decidere se ucciderla o riportarla con sé a Sparta, Elena si difende, accusa, seduce, affabula persino su un inganno celeste che diede a Paride in realtà solo una nuvola e non il suo corpo, nascosto in Egitto da Ermes, nella reggia di Proteo, perché conservasse intatto il letto di Menelao. La storia è raccontata nell’epistola XVII delle Eroine di Ovidio, una delle opere più fantasiose del poeta latino in cui, in una serie di lettere d’amore immaginarie, usa i miti greci per raccontare vizi e virtù delle donne di ogni tempo. Elena si salverà, Menelao cederà ancora una volta al suo fascino. Davanti alla catastrofe delle donne sconfitte dalla guerra, la sua bellezza combattiva, strategica, le permette di tornare a casa sana e salva. E perché non mentire, perché morire d’onore quando il mondo è stato stravolto da dieci anni di battaglie, quando gli uomini si sono massacrati per ripicca, per orgoglio, hanno depredato le città, ucciso le figlie, violentato le donne?
L’Elena di Eva Cantarella è forse la figura più originale di quest’opera, perché è vincente. Lei, causa di tutte le discordie, lei bellissima amata dai Greci e dai Troiani, non si piega alla sorte decisa dagli uomini, non si piega alla legge spietata della guerra. C’è un altro destino per le donne che si ribellano alla legge degli uomini, per coloro come questa Elena o come Antigone che trasgrediscono all’ottuso ordine violento imposto dalla dominazione maschile. Le donne antiche, dominate e senza potere, trovano la loro legge nella trasgressione, nel rifiuto intimo, profondo, di sottomettersi alla brutalità di una morale che non hanno creato. Ed è questa la loro eterna autorevolezza.