Un furgoncino bianco, un cantiere notturno mai autorizzato da nessuno, a poche ore dal botto che fece strage del giudice Giovanni Falcone, della moglie e di tre uomini della scorta. Dalla polvere della strage di Capaci spunta l’ennesimo fantasma. Una pista emersa già nelle ore successive all’Attentatuni, ma mai battuta dagli inquirenti. Perché quel furgone bianco, forse un Fiat Ducato, era circondato da sei persone, sedicenti operai che si muovevano sull’asfalto che sarebbe diventato terreno di strage, senza che nessuno avesse mai ordinato di fare dei lavori nei dintorni. A notare il furgone c’è anche G.D.M. un poliziotto della Stradale, che racconta tutto al suo superiore. Non passa nemmeno una settimana e il poliziotto corregge il tiro: “Mi sono sbagliato – scriverà in una nota – quel furgone bianco non era sul luogo dell’attentato, ma in una stradella più sotto che mi pare si chiami via Kennedy”.
Una bugia, perché ventidue anni dopo, come racconta il quotidiano la Repubblica, la procura di Caltanissetta chiamerà il poliziotto per chiedergli quale delle due versioni fosse vera. “Ho dovuto cambiare versione – dirà G.D.M. ai pm guidati da Sergio Lari – qualcuno è venuto da me e mi ha detto che era meglio se quel furgone bianco usciva dalla scena del crimine. Si tratta di un poliziotto molto noto, anzi un ex poliziotto: Gioacchino Genchi”. Ex consulente informatico di diverse procure, destituito dalla polizia di Stato nel 2011 dopo le accuse di Silvio Berlusconi, Genchi è stato in servizio al gruppo Falcone – Borsellino, l’unità speciale che indagava sulla stragi del 1992, abbandonata dopo un’aspra polemica con il suo superiore Arnaldo La Barbera, che aveva indirizzato le indagini sull’eccidio di via D’Amelio mettendo nel mirino Vincenzo Scarantino, malavitoso della Guadagna, travestito da pentito eccellente e poi rivelatosi completamente estraneo alla vicenda.
“Ho conosciuto il poliziotto in questione solo nel maggio del 1993, e nemmeno allora G.D.M. mi ha mai riferito di avere svolto attività, redatto relazioni di servizio o altro, con riguardo ad avvistamenti o a indagini sulla strage di Capaci. Delle medesime circostanze, per come sono certo, non se ne è mai peraltro accennato in alcun modo con i colleghi ed i superiori dell’XI Reparto Mobile, che, come me, sconoscevano l’esistenza delle predette relazioni di servizio” ha detto Genchi, indagato per favoreggiamento agli autori della strage come atto dovuto dalla procura di Caltanissetta, che ha denunciato per calunnia il suo accusatore. “In questi casi tutti concludono con la frase di rito: Ho fiducia nella Giustizia. Io, da qualche tempo, con quello che ho passato e che sto passando, vi confesso che ne ho sempre di meno, ma non demordo” ha commentato l’ex poliziotto, che ha rinunciato alla prescrizione chiedendo che proseguano le indagini a suo carico.
Sulla vicenda sarà la procura nissena a fare i dovuti accertamenti. E’ un fatto, però, che quel furgoncino attivo sul luogo della strage poche ore prima della deflagrazione, sia stato notato in passato anche da altri testimoni. Come l’ingegner Francesco Naselli Flores, cognato di Carlo Alberto Dalla Chiesa, che passando dallo svincolo per Capaci intorno alle ore 12 del 22 maggio aveva notato lo stesso mezzo, circondato da alcune persone che “stendevano cavi”. Le indagini avevano già all’epoca appurato che nessun’azienda aveva ordinato di svolgere lavori nella zona. Eppure quella pista viene abbandonata e il furgone bianco scompare dal luogo della strage: perché? Chi sono quei sei uomini che “stendono cavi”? E cosa facevano veramente?
Dalla scena di Capaci scompare come un fantasma anche un personaggio in chiaro scuro: si chiama Pietro Rampulla, è un mafioso della provincia di Messina, ex fascista esperto di esplosivi, che doveva essere l’artificiere della strage al posto di Giovanni Brusca, prima di dare forfait per “impegni familiari”. Può un mafioso annullare la sua presenza alla strage più delicata della storia di Cosa Nostra per “problemi familiari”? L’interrogativo più grande rimasto ancora aperto sul botto di Capaci è quello che conduce all’esplosivo utilizzato. E’ un fatto conclamato che gli uomini di Cosa Nostra abbiano utilizzato tritolo recuperato dalle bombe inabissate nei fondali marini durante la seconda guerra mondiale, misto ad esplosivo utilizzato nelle cave. Tutto materiale sistemato in alcuni bidoni, piazzati sotto l’autostrada con alcuni skateboard. Solo che dopo la strage gli inquirenti trovano anche tracce di “collante”, un esplosivo di tipo militare: chi lo procura a Cosa Nostra? E sono solo i picciotti di Totò Riina a mettere in atto il piano di morte per Giovanni Falcone?
Per la procura di Caltanissetta oggi non c’è dubbio che gli esecutori materiali dell’Attentatuni siano solo mafiosi. Un passaggio cruciale dato che in questa storia sono tanti i pezzi di puzzle ancora da incastrare. Tra le macerie dell’esplosione gli inquirenti trovarono anche un sacchetto di carta, che custodiva una torcia, del mastice, più un paio di guanti di lattice: che c’entrano i guanti di lattice, se Brusca racconta di aver utilizzato guanti da muratore per la preparazione della strage? Altro elemento, mai evidenziato in passato, è la precisione chirurgica, quasi da ingegneri specializzati, utilizzata dagli uomini di Cosa Nostra per far fuori Falcone. Perché la strage di Capaci è forse uno dei più spettacolari attentati messi in pratica nella storia recente: per trovare un precedente simile bisogna andare indietro al 20 settembre 1973, con l’attentato messo in piedi dall’Eta contro Luis Carrero Blanco, delfino del generale Franco, che però si trovava su un’automobile che procedeva a passo d’uomo.
A Capaci le auto sono lanciate a 170 chilometri orari, con la blindata di Falcone che ad un certo punto perde velocità proprio pochi secondi prima della deflagrazione: la precisione degli artificieri è da esperti in attentati con bersagli in movimento. Roba da 007 super addestrati in tutte le tecniche di guerra non convenzionale, più da che uomini di Cosa Nostra. “Totò Cancemi dice che dobbiamo inventare che la morte di Falcone (inc.): che ci devi inventare, gli ho detto? Se lo sanno la cosa è finita” confiderà Riina in carcere ad Alberto Lorusso, mentre la Dia li intercetta. Cosa non si doveva sapere sulla strage di Capaci? E chi non avrebbe dovuto saperlo? E’ possibile che Riina si riferisca a collaboratori esterni a Cosa Nostra, che a Capaci mettono a disposizione tutte le loro capacità di morte, senza che gli altri boss ne sappiano nulla? Il furgoncino bianco con sei persone poi sparite, l’esplosivo d’origine militare, i mafiosi neo fascisti che scompaiono dal luogo della strage, la chirurgica precisione degli attentatori: tutti elementi che fanno diventare la scena del crimine un quadro complesso in cui i pezzi mancanti abbondano ancora oggi. E che avevano spinto la procura nazionale antimafia a ipotizzare l’esistenza di un “secondo cantiere”, di supporto a quello targato Cosa Nostra, ma con un’origine diversa da quella mafiosa. Ipotesi scartata dagli inquirenti di Caltanissetta, che oggi indagano su tutti quei passaggi sempre rimasti oscuri sulla strage di Capaci. Primo tra tutti il furgoncino bianco, che qualcuno ha fatto scomparire dal luogo della strage.