Il Governo ha deciso di porre la fiducia sul decreto lavoro. I cui tratti peraltro confermano l’impostazione dei piani e provvedimenti in materia visti negli ultimi dieci anni. Incentrati, come sono stati, sempre sulle stesse misure: sconti e incentivi per chi assume, limature al cuneo contributivo e fiscale, ipotesi di tagli sull’Irap, aumento della flessibilità in entrata e in uscita, incremento del numero di contratti ascrivibili alla parasubordinazione, revisione delle regole burocratiche su assunzione e licenziamento. Tutto ciò, purtroppo, non ha prodotto alcun risultato tangibile. Perché il trend di crescita della disoccupazione, in particolare quella giovanile, non ha mostrato rallentamenti. Basti considerare che negli ultimi cinque anni il tasso di disoccupazione nel nostro Paese è raddoppiato, passando dal 6,7% del 2008 al 13% attuale. E che la disoccupazione giovanile, vero dramma nazionale, è salita, nel medesimo arco di tempo, dal 21,3% al 42,2%. Una chiave di lettura del perché la gran parte delle misure pensate da chi ci ha governato per far crescere l’occupazione abbiano fallito può essere offerta da una recentissima pubblicazione di Eurostat. Il rapporto Labour market policy – expenditure and participants analizza, nazione per nazione, le politiche adottate e la relativa spesa sostenuta. Un dato su tutti chiarisce più efficacemente di altri in che posizione si trovi l’Italia nel confronto con i partner europei: le risorse pubbliche destinate alle politiche per il mercato del lavoro sono ammontate nel 2011 – anno a cui si riferisce l’elaborazione – appena all’1,7% del Pil, contro una media UE-15 del 2%. La Francia, per esempio, destina a queste politiche il 2,4% del Pil, la Spagna il 3,6%. La Germania, invece, registra un dato simile all’Italia (1,8% del Pil), ma proporzionalmente investe molto più in politiche attive che in strumenti sussidiari del reddito da lavoro, cioè gli ammortizzatori come la casa integrazione.


Quanto alla spesa media per ogni persona in cerca di lavoro, in Italia è di 4351,8 euro, grosso modo come l’isola di Cipro, contro i 7mila euro medi dei paesi UE-15, i 9546,3 euro della Germania, gli 11.234 della Francia, i 6260,9 della Spagna e addirittura i 17056,7 dei Paesi Bassi. Il nostro Paese è lontano dalla media anche per la percentuale di risorse assorbita da indennità di disoccupazione, cassa integrazione, incentivi all’esodo e misure simili: da noi è l’80%, contro il 55% della Germania e il 60% della Francia. Nel dettaglio, in Italia ai servizi di orientamento all’occupazione riconducibili ai cosiddetti centri per l’impiego viene destinato appena l’1,9% della spesa totale, contro il 10,8% della Francia, il 18,8% della Germania e una media UE-15 pari all’11%. Il settore pubblico investe poi ancora troppo poco in formazione: le risorse che alimentano il relativo capitolo di spesa sono pari all’8,3% del totale, mentre in Germania sono il 14,3% e in Francia il 15,3%. 
Colpisce poi il dato sulla spesa per incentivi all’occupazione, che in Italia assorbe l’8,5% delle risorse disponibili. Una percentuale, questa, circa tre volte più grande di quella della Germania e quasi quattro volte superiore a quella della Francia. Eppure nelle grandi industrie, le maggiori beneficiarie, l’emorragia di posti di lavoro non si è arrestata. 

Pochissime risorse pubbliche – solo 211,2 milioni di euro – sono invece finalizzate in Italia a sostenere l’avvio di un’attività imprenditoriale da parte di chi è in cerca di occupazione. Germania, Francia e Spagna allocano sul capitolo degli incentivi alle start-up rispettivamente 1,7, 1,2 e 1,95 miliardi di euro. Insomma il messaggio che esce dal quadro comparativo delle politiche sul mercato del lavoro condotte a livello europeo è chiaro: l’Italia spende meno dei suoi diretti competitors e oltretutto in misura nettamente sbilanciata sul capitolo dei sussidi. Tradotto: fino a quando gli investimenti italiani in politiche sul lavoro non saranno allineati quantitativamente a quelli europei, ma soprattutto fino a che non si sceglieranno meglio le misure su cui focalizzare le risorse, è difficile che con le leggi si possa creare nuova e solida occupazione.

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