È “la più importante operazione di declassificazione della storia repubblicana”, proclama Marco Minniti, autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, subito dopo la firma, da parte del presidente del Consiglio Matteo Renzi, della direttiva che dispone la declassificazione degli atti relativi alle stragi di Gioia Tauro, piazza Fontana, piazza della Loggia, Peteano, Italicus, stazione di Bologna, Ustica, rapido 904.
Gli specialisti di intelligence, ma anche i magistrati che hanno indagato sulle stragi, sono scettici. “Non uscirà nulla di nuovo”. Le ragioni dello scetticismo sono forti, intanto perché dire “togliamo il segreto di Stato” non ha senso, poiché il segreto di Stato non c’è, non è opponibile ai magistrati sui fatti di strage e di eversione dell’ordine democratico. Del resto, non è mai stato opposto su piazza Fontana, su Brescia, su Bologna (solo sull’Italicus, a proposito delle attività di una collaboratrice dei servizi segreti). Eppure i processi per strage sono tutti pieni di tracce di depistaggi e di carte negate. E, più vicino nel tempo, le condanne per il sequestro di Abu Omar sono state rese impossibili dal segreto di Stato, per intervento degli ultimi presidenti del Consiglio (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta) e della Corte costituzionale.
È dal 2007 che assistiamo a una promessa di trasparenza che non viene mai mantenuta. Già nella riforma dei servizi segreti varata quell’anno si diceva che il segreto sarebbe stato a tempo e ci sarebbe stata un progressivo slittamento dei livelli di classificazione (segretissimo-segreto-riservatissimo-riservato). Invece non sono mai stati completati i regolamenti attuativi, così siamo rimasti al segreto che resta segreto. Ora ci riprova Renzi, che promette la declassificazione, di fatto già contenuta nella legge del 2007. Vedremo come e quando avverrà. Non promette bene l’annuncio della diluizione nel tempo dei versamenti agli archivi pubblici: per seguire, come annunciato, l’ordine cronologico, i fascicoli dovranno essere spacchettati, con il risultato che un documento prodotto in un certo anno risulterà incomprensibile, se non addirittura fuorviante, se slegato da tutti gli altri.
Che cosa, poi, diventerà pubblico? Prevedibilmente, i documenti che già sono stati acquisiti nei decenni scorsi dalle varie autorità giudiziarie che hanno indagato sulle stragi, sul golpe Borghese, su Gladio… Tutte carte che stanno già negli archivi della Casa della memoria di Brescia o nei libri di studiosi come Giuseppe De Lutiis o Aldo Giannuli. Chi deciderà che cosa tirar fuori dai cassetti? Chi prenderà la responsabilità di esibire carte nuove e davvero significative, ammesso che siano state conservate, dopo il passaggio negli archivi dei servizi di tanti magistrati (da Rosario Minna a Libero Mancuso, da Leonardo Grassi a Gianpaolo Zorzi, da Carlo Mastelloni a Felice Casson, fino a Guido Salvini)? Se qualche documento nuovo dovesse arrivare, qualcuno dovrà spiegare come mai l’ha negato e occultato, in passato, ai magistrati che ne avevano fatto richiesta. E quella spiegazione potrebbe essere l’ammissione di un reato, benché forse prescritto.
Ci sono quattro cose che Renzi potrebbe invece utilmente fare (chieste a gran voce da quella strana comunità che si è formata in Italia, composta da investigatori, magistrati, ricercatori, famigliari delle vittime, cittadini a caccia della verità).
Uno. Completare i regolamenti attuativi della riforma del 2007, che darebbero finalmente alla desecretazione un carattere strutturale e non “eccezionale”, come fa la direttiva di ieri. Magari aggiungendo anche un elenco di tutti gli archivi dove stanno i depositi da declassificare: non c’è, è il vero mistero italiano.
Due. Farsi dire dov’è l’archivio dell’Arma dei carabinieri: nessuno lo sa, nessun magistrato l’ha scoperto e dunque è probabile che resti fuori anche dalla mirabolante declassificazione promessa ieri.
Tre. Chiedere gentilmente se nell’operazione finestre aperte è coinvolto anche l’archivio del Quirinale, che già rispose picche al giudice che chiedeva carte sul progetto del principe Borghese di far arrestare il presidente Saragat da Licio Gelli nel 1970.
Quattro. Che ne sarà dei documenti degli Uffici Sicurezza Patto Atlantico? Sono collegati con i ministeri della Difesa e degli Esteri, ma hanno copertura Nato: sono dunque fuori dalla disponibilità dell’Italia?
“Attenti”, dice un magistrato che indagò su Bologna e l’eversione nera, “se fatta senza controlli e garanzie di terzietà, questa operazione può diventare una distribuzione di polpette avvelenate, o addirittura un colossale depistaggio. Non più dei processi ormai, andati come sono andati, ma della storia”.