Una nuova serie di post che inizia con un passo da Specie di spazi, un libro di culto per la mia generazione, uscito nel 1989 da Bollati Boringhieri; un’opera di Georges Perec, membro di Oulipo, genio della letteratura contemporanea, “gnomo e cabalista” come lo definì Italo Calvino.
Il capitolo “La campagna”, da cui il brano è tratto, mi sembra descriva in maniera molto precisa un modo consolidato di vivere la ruralità da parte degli abitanti delle città occidentali contemporanee, nella seconda parte del Novecento.
Ma è un modo che negli ultimi anni, certe ibridazioni della vita urbana con quella rurale – gli orti urbani in primo luogo – stanno definitivamente cambiando. Per cui, quello che segue, potrebbe essere il racconto della fine di un abitare, che fa emergere la necessità di cominciare ad immaginarne un altro.
“Non ho molto da dire a proposito della campagna; la campagna non esiste, è un’illusione.
Per la maggior parte dei miei simili, la campagna è uno spazio di svago che circonda la loro seconda casa e che fiancheggia un tratto delle autostrade che prendono il venerdì sera quando vi si recano, e di cui la domenica pomeriggio, se se la sentono, percorreranno qualche metro prima di ritornare in città dove, per il resto della settimana, saranno i cantori del ritorno alla natura.
Eppure, come tutti, sono andato molte volte in campagna (l’ultima volta, me ne ricordo bene, è stato nel febbraio 1973; faceva molto freddo). D’altro canto mi piace la campagna (mi piace anche la città, l’ho già detto, non sono difficile): mi piace stare in campagna: si mangia pane casareccio, si respira meglio, certe volte si vedono animali che non si vedono praticamente mai nelle città, si accendono i caminetti, si gioca a scarabeo e ad altri giochetti di società. Spesso si ha più spazio che in città, bisogna pur riconoscerlo, e quasi altrettante comodità, e a volte altrettanta calma. Ma mi sembra che niente di tutto ciò basti a stabilire una differenza pertinente.
La campagna è un paese straniero. Non dovrebbe esserlo, ma invece è così; avrebbe potuto non esserlo, ma così è e ormai così sarà: è già troppo tardi per cambiare qualsiasi cosa.
Sono un uomo di città; sono nato, sono cresciuto ed ho vissuto in città. Le mie abitudini, i miei ritmi e il mio vocabolario sono abitudini, ritmi e vocabolario dell’uomo di città. La città mi appartiene, mi sento a casa mia: l’asfalto, il cemento, i cancelli, la rete stradale, il grigiore delle facciate a perdita d’occhio […] In campagna, niente mi scandalizza; per convenzione, potrei dire che tutto mi stupisce; in realtà, tutto mi lascia pressoché indifferente. Ho imparato molte cose a scuola ma non ho imparato niente che riguardi la campagna, oppure ho dimenticato tutto quello che mi è stato insegnato. Mi è capitato di leggere nei libri che le campagne erano popolate da contadini, che i contadini si alzavano e andavano a dormire col sole, e che il loro lavoro consisteva, tra l’altro, nel calcinare, marnare, maggesare, ammendare, erpicare, smarrare, rimondare, sarchiare, spulare o trebbiare. Le operazioni comprese nel significato di questi verbi sono per me più esotiche di quelle che presiedono, per esempio, al ripristino di una caldaia mista di riscaldamento centrale, campo di cui non sono assolutamente pratico.
Ci sono, ovviamente, grandi campi gialli solcati da macchinari sfavillanti, boschetti, praterie di erba medica e vigneti a perdita d’occhio. Ma non so niente di questi spazi, sono per me impraticabili. Le uniche cose che io possa conoscere sono le bustine Vilmorin o Truffaut, le fattorie riadattate in cui il giogo dei buoi è divenuto lampadario, in cui le misure per il grano sono divenute cestini (ne ho una alla quale tengo molto), gli articoli impietositi sull’allevamento dei vitellini e la nostalgia delle ciliegie mangiate sull’albero”.
[Mostra mercato sul benessere naturale, Orto Botanico di Portici, 2013]