Il 17 febbraio 2014 alle due e mezzo di notte, in via Garibaldi al Gianicolo, un lungo cacciavite entrava nel cuore di Carlo, figlio di Giuliana.

Quel giorno Carlo e suo fratello Francesco tornavano a casa dopo un concerto. Carlo scese dalla macchina per fare pipì, lasciando la radio della macchina accesa. A quel punto, un uomo che viveva nel caravan lì parcheggiato, uscì dal caravan e colpì Carlo con un cacciavite. Francesco spinse Carlo a rientrare in macchina, Carlo chiuse gli occhi e non si riprese più.

Sembrerebbe una delle tante storie di cronaca che riempiono i giornali, frutto di una violenza ingiustificata, senza spiegazioni né antidoti. Ma non è così.

Giuliana ieri ha lanciato una petizione che ha già superato le quattordicimila firme per chiedere che a San Pietro in vincoli, dove abitava Carlo, venga piantato un albero a simboleggiare quella cura dei territori e delle persone che possa impedire in futuro simili sofferenze per tutti; un albero in memoria di Carlo, contro il degrado, per una città giusta e vivibile.

Il gesto di Giuliana è un gesto che blocca sul nascere tutte le possibili strumentalizzazioni da parte di certi discorsi politici xenofobi e opportunisticamente discriminatori (perché l’uomo che ha ucciso Carlo non era italiano, e sappiamo tutti come i media diano risalto a certi dati). Giuliana non vuole che la morte di Carlo diventi simbolo di ostilità, bensì simbolo di solidarietà e di non violenza.

Ma cosa c’è esattamente dietro la morte di Carlo? Vivere in un caravan sul ciglio di una strada del centro storico, in un’area priva di servizi essenziali è una situazione non solo illegale, ma soprattutto indegna per chi è costretto a viverla. Eppure questo fenomeno è molto diffuso a Roma e favorito da un certo tipo di assistenza sociale. Nel caso del caravan dell’omicida, il mezzo era procurato e gestito dall’Istituto Sant’Egidio.

Spesso questo è il modus operandi dell’assistenzialismo cattolico. Questo genere di assistenza, che va di pari passo con politiche sociali inadeguate, causa indigenza e difficoltà nell’integrazione per chi le vive, nonché insicurezza per tutti i cittadini, con conseguenze di aspro conflitto sociale.

Non possiamo ancora pensare che chi ha bisogno di aiuto possa essere aiutato semplicemente con l’offerta di un alloggio arrangiato, letteralmente ai margini. In questo modo di operare non c’è dignità, non c’è responsabilizzazione, non c’è il pensiero che quello sia un essere umano. C’è solo il pensiero che quello sia un povero al quale fare la carità. Tanto a rapportarsi con una seria sofferenza mentale aggravata da condizioni di indigenza, senza gli strumenti adeguati, saranno i cittadini.

Menomale che a reagire a tanta sofferenza ci siano donne come Giuliana.

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