Classe 1953, Terry Fullerton ha vinto il campionato del mondo di kart nel 1973 oltre a innumerevoli trofei. Verso la fine degli anni ‘70 fu compagno di squadra di Senna nella famosa scuderia Dap di Angelo Parilla. Con Ayrton fu protagonista di epici duelli. Oggi insegna ai ragazzi come pilotare i kart. Anche in Italia.
Se ci penso? Certo, e voi non lo fareste? Lui è diventato campione del mondo, un mito per miliardi di persone. E io, come trentacinque anni fa, sono sempre pilota di kart. Insegno ai ragazzini. Ci penso spesso, se lo negassi sarei falso, ma ho fatto le mie scelte, un uomo deve sempre farle. Ho fatto la vita che volevo. E poi c’era di mezzo una promessa e non si può mancare alla parola.
Non ho rimpianti, non ho rabbia. È andata bene così. Però ci penso, non potrebbe essere altrimenti: Ayrton e io correvamo insieme, eravamo compagni di squadra, tutti e due sui kart della Dap. Lui era un ragazzetto di 17 anni, io quasi un uomo… ne avevo 25. Ogni giorno ci confrontavamo. E credetemi, eravamo davvero veloci, tenevamo sempre giù il piede sull’acceleratore. Abbiamo vinto Campionati del mondo, una marea di coppe che ho ancora sul mobile. Ora lo so cosa vorreste chiedermi –mi capita spesso, ormai, mi parlano di me, ma vogliono sapere di lui – chi era più veloce? Andavamo forte tutti e due. Molto forte. Ma eravamo diversi: Ayrton aveva dentro qualcosa, un vero dono. E una grande ossessione. Era rapidissimo, ma soprattutto “passionate”, non saprei tradurvelo, è più che appassionato… vuol dire anche passionale, sì, mentre teneva in mano il volante. Io ero più logico, ci pensavo prima di lanciarmi in un sorpasso folle. Avevo più esperienza, più tecnica.
Ma eravamo veloci uguali, a volte più io, l’ho battuto tante volte. Nel mondo dei kart eravamo i numeri uno. Non so che cosa vi aspettiate che risponda, che mi arrenda davanti a lui? Ma non sarebbe giusto nei suoi confronti. E nemmeno nei miei. Bisogna essere obiettivi, sinceri, sempre.
Anche Ayrton lo era. Per questo mi ha colpito come una fitta nello stomaco il giorno che ascoltai quelle sue parole. C’era l’intervistatore che gli faceva la solita domanda, chi è stato il tuo più grande avversario? Prost, Schumacher? Ma Ayrton stupì, come sempre: “Quando arrivai in Europa mi ritrovai un compagno di squadra che si chiamava Fullerton. Aveva una grande esperienza, ed è stato grande guidare con lui, perché era veloce, e tosto. Ecco per me era un pilota davvero completo. E un puro guidatore. Era pura competizione. Non c’era politica, non c’erano sponsor o denaro. Soltanto competizione”. Che cosa volete che vi dica, che non mi fece piacere? Certo che fui felice, orgoglioso. Era un riconoscimento che arrivava dal campione del mondo. Ma nel profondo me lo aspettavo. Ce la giocavamo davvero. Perché quelle gare, mio dio, furono stupende. Davvero competizione allo stato puro. Quello che io ho sempre sognato. E anche Ayrton. In questo sì eravamo uguali: quando indossavamo il casco volevamo soltanto una cosa: vincere. Questo vogliono i piloti, quelli veri. Certo, la velocità, ma sopra ogni cosa vincere. Non state ad ascoltare chi dice che è meglio una bella sconfitta che una brutta vittoria. Balle. A chi arriva secondo non ci devi nemmeno pensare. Non c’è compassione. Crudele? Sì, lo so. Ma crudele per tutti. Oggi vinco, ma tante più volte sarà un altro a sollevare la coppa e io a soffrire. C’è qualcosa di molto onesto e puro nelle gare. Competition, competizione, Ayrton ce l’aveva nel sangue. E anch’io. È un bug, un baco che ti si è annidato dentro. Io me ne sono accorto a undici anni. Bastò provare una macchina cinque minuti per capire che volevo soltanto quello. I fell in love, mi sono innamorato. Ed ero bravo, non lo dico per superbia. Non so che cosa ti renda veloce, non chiedetemelo, è qualcosa che hai nel cervello che a duecento all’ora ti fa calcolare ogni centimetro della curva. Qualcosa negli occhi, nei muscoli. Nel dna. Ragione e istinto.
Così è cominciato tutto, le gare, i campionati del mondo. Quando sollevi in alto le coppe ti senti in paradiso. Sì, quanta felicità. E quanto dolore: avevo undici anni quando morì mio fratello. Mallory Park, correva su una moto, una Northon. Alec era tutto per me, ma non mi fermai. Continuai a correre, correre, correre. E vincere. E viaggiare per il mondo.
Vale per me e valeva per Ayrton. Questo ci riconoscevamo quando ci guardavamo negli occhi: la voglia di vincere. E quel suo sguardo mi spingeva ad andare più veloce.
Amico? Allora avrei detto di no. Ma non eravamo nemmeno nemici. C’era rispetto. Tanto. Questo significa essere rivali. Condivido tante cose con te, ti sto vicino, arrivo a capirti, a conoscerti come poche altre persone al mondo. Ma voglio batterti. Sempre. No, non umiliarti, non voglio che picchi. Voglio solo che mi stai dietro. In quel mondo alle mie spalle che per me non esiste.
È andata avanti così per anni. Sempre vicini. Ci parlavamo anche, delle gare, della macchina. E poi i discorsi dei ventenni… le ragazze, il sesso. Ma non avrei detto che fosse mio amico. Neanche lui lo avrebbe fatto. È impossibile, ti renderebbe indifeso, vulnerabile. La competizione, quando è allo stato puro, ti rende egoista. Ti fa dimenticare tutto. Io gli amici non li porto in pista, perché appena scendo sull’asfalto sono un’altra persona. Non posso farci niente, devo batterli. A qualunque costo.
No, capitemi, non intendo essere sleale. Noi ci siamo anche aiutati, Ayrton ed io. Ricordo quella volta che ero in testa. E il nostro grande manager, Angelo Parilla, aveva chiesto ad Ayrton di non fare casini. Lui niente, mi stava a un millimetro, voleva superarmi. Non poteva farci niente, era la sua natura. Ma io non gliene volevo, avrei fatto lo stesso. Tiravamo come matti, pazzi totali, finché all’uscita di una curva, mi sembra di vedermela qui davanti, il mio motore ha grippato. Mi sono piantato. Fermo. E lui boom, mi è venuto dentro. Che botta. Ma appena mi sono alzato in piedi l’ho aiutato a rimettere a posto il suo kart, a farlo ripartire. A vincere. No, sia chiaro, non è una questione di bontà, era istinto: io non potevo più vincere… e allora che lo facesse lui. Il mio compagno. Amici? Non so. C’è un legame, però, a volte ancora più forte. Più inspiegabile.
Poi un giorno lui se n’è andato: la Formula 3, la Formula 1, le vittorie. Il mito. Io ho continuato con i kart. Lo so che cosa vorreste chiedermi: perché Senna sì e io no? È la vita, potrei dirvi. Ma c’è dell’altro: io avevo sette anni più di Ayrton e quando avevo vent’anni le formula 1 erano dannatamente pericolose. Correvi con il pensiero della morte, in cinque anni sono morti venti piloti su cento. E poi c’era di mezzo quella promessa. Dopo la morte di Alec l’avevo giurato a mia madre: non correrò mai con le moto e le auto da corsa. Discorso chiuso. Anche se tentazioni ne ho avute: provai un’auto da competizione, una di quelle buone. E feci un tempone. Si potevano aprire anche per me quelle porte. Chissà, forse avrei potuto incontrare di nuovo Ayrton. Ma di parola ce n’è una sola. E i miei genitori avevano già sofferto.
Ecco, oggi, a 58 anni, guardo mia moglie, la mia bambina di nove anni che suona il piano in salotto. Penso che ho fatto bene. Che sono vivo.
Faccio l’istruttore di kart, non potrei fare altro. E guardando quei bambini che corrono mi basta un’occhiata per capire chi ce l’ha dentro quella passione, come Ayrton e me. Se c’è un bambino che perde e dopo cinque minuti è di nuovo felice, bè, lui non vincerà mai.
No, non mi allontanerò mai dalle piste. Da quel loro odore di asfalto e di benzina. Di gomme. Ma sono una persona normale. Abito a Norwich in Inghilterra. A metà strada tra la città e la campagna. Dalla finestra della mia camera vedo l’edificio di fronte. Niente di speciale. Mi faccio delle lunghe camminate sulla spiaggia con il cane.
Rimpianti? No, ve l’ho detto. Però ci penso ad Ayrton, come quel giorno che stavo tornando in Inghilterra con il traghetto e mi telefonarono: “Senna è morto”. Sì, forse allora ho capito che eravamo amici. Mi capita a volte di immaginare di incontrarlo. Di bere qualcosa con lui, invecchiato. Forse anche lui, comeme, avrebbe una visione diversa della vita: gli anni ti fanno vedere tante altre cose. Chissà di che cosa parleremmo… dei vecchi tempi, certo, delle gare che abbiamo fatto insieme. Ma anche degli errori, dei fraintendimenti. Delle cose non dette. Non più rivali, ma liberi di essere amici. Ma comunque piloti: con quella voglia di vincere sempre. Come se non sapessi che alla fine della vita si perde.
(Testo raccolto da Ferruccio Sansa)
Il Fatto Quotidiano, Lunedì 14 aprile 2014
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