In città non si parlava d’altro. Una mega-festa con invitati super per il varo dello yacht che da mesi luccicava nel cantiere “Ortona Navi”. Un sabato sera da celebrare per tutta la vita. Un’occasione irripetibile per far detonare il nuovo cellulare acquistato con una comoda cessione del quinto alla vecchia finanziaria di sempre. Fotografare, tutte insieme, tante stelle del jet-set. E forse ci sarebbe scappato pure qualche autografo.
Ortona, durante la seconda guerra mondiale, venne ribattezzata la Stalingrado d’Italia. Da Ortona passava la cosiddetta linea Gustav, una linea di difesa fortificata allestita dalle forze tedesche occupanti. La piccola cittadina abruzzese si ritrovò così a essere un baluardo nazista, lo spartiacque geopolitico della presenza della croce uncinata in Italia. Sopra Ortona (e Cassino) l’Italia avrebbe dovuto continuare a parlare la lingua cupa e dannata del nazifascismo. In quel finale di partita, al crepuscolo del 1943 ma con ricadute sino alla tarda primavera successiva, Ortona fu teatro di interminabili bombardamenti e sanguinosi combattimenti sul campo, nel vivo corpo della città, culminanti nella cosiddetta Battaglia di Ortona, che si snodò fin dentro le sue più minute viscere, casa per casa, alla stregua della strategia della “caccia al topo”. La città fu praticamente rasa al suolo. Fu un Natale bagnato da fiumi di sangue per la Stalingrado d’Italia. Nessuno festeggiò, nessuno brindò. Non scorreva goccia frizzante nelle vene dei superstiti. Quando arrivarono gli alleati a liberarla, si contavano oltre tremila morti. La sua resistenza stoica passò alla storia e Ortona venne insignita della medaglia d’oro al valor civile. “Con fierissimo contegno resisteva intrepida ai soprusi degli invasori in armi, mai piegando nella sua purissima fede in un’Italia migliore, libera e democratica. Si prodigava con cuore di madre nel soccorso dei feriti e dei sofferenti affermando, negli orrori della guerra, il più alto spirito di solidarietà umana”. Non ci sarebbe stata la Liberazione senza il sacrificio di Ortona.
Ortona, 65 anni dopo. Questa è una storia realmente accaduta. Eravamo a giugno del 2008. Da mesi, ormeggiata nel porto d’Ortona, una nave smisurata, un colosso dei mari faceva stupefacente mostra di sé. Si chiamava Marcelita, questo yacht, quaranta metri di grattacielo orizzontale galleggiante, costato 15 milioni di euro, e senza cessione del quinto. Marcelita, perché di proprietà di Marcella Bella, sì, proprio lei, la panterona della musica leggera tricolore, l’interprete degli incrollabili hits “Mi…ti…amo” e “Senza un briciolo di testa”, il sogno erotico e tricologico dell’Italia del riflusso dei profondi anni ’80, la sorella di Gianni Bella, autore di canzoni che tutti abbiamo di nascosto mai canticchiato sotto la doccia.
A Ortona non si parlava d’altro. Quella sera sarebbe approdata nella cittadina abruzzese medaglia d’oro al valore civile, ospite dell’inaugurazione del Marcelita, la compagnia di giro dei vip. Cari telespettatori, ecco a voi: Mara Venier, Marta Marzotto, Ignazio La Russa, il principe Giovannelli, Corinne Clery, Dalila Di Lazzaro, Alba Parietti, Debora Caprioglio, più imbucati ed eventuali. Tutte le forze di polizia della zona, di cielo, di terra e di mare, vigilavano ardentemente. Tutti a scattarsi selfie non sapendo ancora cosa fossero i selfie.
All’ora X i famosi invitati giunsero sul piazzale del cantiere scansando a fatica la gran folla che si era accalcata anche per contargli le rughe e i ritocchi.
La madrina del Marcelita tentò di infrangere la bottiglia di champagne contro il mastodontico panfilo, come da antica tradizione dei mari. Ma la bottiglia rimbalzò contro la chiglia, restando assolutamente intatta. Allora si cercò di procedere allo scioglimento delle cime che tenevano ancorato lo yacht. Ma la barca si incagliò implacabilmente. Si ricorse quindi ai servigi di un rimorchiatore, di quelli usati per condurre le petroliere fuori dal porto. Niente da fare. Il Marcelita non si smuoveva di un centimetro. Il bello della diretta.
Un cavo d’acciaio rimpallò, come una frustata, sugli arti dell’operaio che dirigeva le manovre d’emergenza. L’uomo, milite ignoto della società dello spettacolo “avanzata”, venne operato d’urgenza. Gli fu amputata una gamba. Immaginiamo l’imbarazzo dei vip, a inizio buffet.
Nessun riconoscimento per lui, nella Stalingrado d’Italia in tempo di pace. Nemmeno una foto in miniatura sui giornali.
Nessuna medaglia al valore.