Erano migliaia tra staffette, combattenti armate, o coadiuvanti degli uomini in battaglia. Becchetti, dottore di ricerca in Storia all'Università di Parma: "Nel ’43 la mentalità dell’uomo medio non necessariamente fascista, era comunque quello del figlio della lupa: le femmine non sanno sparare"
C’era “Edera”, Francesca De Giovanni, la prima donna partigiana uccisa in Italia dalle Brigate Nere il 1 aprile del ’44 a Bologna, che gridò ai suoi assassini: “Tremate. Anche una ragazza vi fa paura”. C’era Giovanna Marturano, “La bimba col pugno chiuso”, morta l’anno scorso a Roma, 101 anni di lotta contro il fascismo e per la giustizia sociale, protagonista del corto animato che si potrà vedere a Torino oggi 25 aprile. C’erano Ondina Peteani, Carla Capponi, Vinka Kitarovic, Irma Bandiera e tante altre. L’elenco delle combattenti nella Resistenza in Italia tra il 1943 e il 1945 potrebbe non finire mai. Stime ufficiali, mai confermate storicamente con precisione, dicono 35mila. Donne di ogni età, dai 14 ai 70 anni che presero parte attivamente alla lotta di Liberazione. Staffette, combattenti armate, o coadiuvanti degli uomini in battaglia. In ogni caso, sulla questione femminile nella Resistenza non si è ancora arrivati a una risposta definitiva. E soprattutto nel corso degli anni è prevalsa la semplificazione della retorica e del trionfalismo concentrato su alcune singole e cruciali figure. Senza mettere in rilievo a sufficienza la complessità di un rapporto umano, sociale e storico probabilmente dirompente.
“Ragionare sulle cifre è del tutto fuori luogo”, spiega al fattoquotidiano.it Margherita Becchetti, dottore di ricerca in Storia presso l’Università di Parma e ricercatrice del Centro studi Movimenti, “i numeri ufficiali sono da prendere con le pinze e rappresentano il riconoscimento avvenuto a guerra finita secondo criteri militari molto stringenti di partecipazione ad un numero elevato di battaglie in tempi ridottissimi. Poi anche i benefici per i cosiddetti combattenti in una società maschilista come era ancora all’epoca quella italiana, vennero chiesti dal ’45 in avanti prima di tutto da mariti, fratelli o figli”. Anche la cifra di 70mila aderenti ai Gruppo di difesa della donna (Gdd), un’organizzazione legata al Pci come le Sap o le Brigate Garibaldi, che cercava di sensibilizzare le donne alla lotta partigiana, per farle uscire da un’idea di ruolo sociale scoraggiato nel ventennio con l’immagine ‘donna regina del focolare’, sembra essere sottostimata, soprattutto per i pregiudizi che regnavano persino tra gli uomini che combattevano.
“Una polemica che in pochi citano fu quella sulla partecipazione delle donne alle sfilate in piazza nelle città liberate”, ricorda la storica Paola Zappaterra, che ha curato un volume sulla Resistenza al femminile in Emilia Romagna nel 50ennale della fine della guerra. “In alcuni casi, tra cui a Torino, a molte donne che avevano realmente combattuto nelle brigate partigiane in montagna venne chiesto di non sfilare. L’eco della polemica finì anche su giornali come L’Unità o Noi donne e durò anche durante i lavori della Costituente dove furono elette solo 21 deputate. Certo, si arrivò al diritto di voto anche per le donne, ma il problema fu talmente sentito che per rintuzzare molte ritrosie di deputati maschi si usò proprio la partecipazione alle battaglie come conferma per partecipare al voto”.
Questo fu uno dei tanti episodi di quella che è stata definita da molte storiche “la Resistenza taciuta”. “La diffidenza verso le donne delle prime organizzazioni partigiane e la loro organizzazione fragile vanno però valutati con gli occhi di allora – prosegue Becchetti – il pregiudizio degli uomini che la guerra fosse un affari da maschi era fortissimo. Nel ’43 la mentalità dell’uomo medio non necessariamente fascista, era comunque quello del figlio della lupa: le donne non sanno sparare”. Ecco che per arrivare ad una vera emancipazione sociale del ruolo della donna, non basta più la partecipazione alla Resistenza e nemmeno il diritto di voto: “Negli anni ’50 in Italia nascere uomo o donna non era la stessa cosa”, continua la storica parmigiana, “rapporti sociali e codice penale mutano decine d’anni dopo.
Nel 1981, ad esempio, sparisce il delitto d’onore e l’adulterio viene depenalizzato nel 1969. Il vero cambiamento per le donne avviene solo negli anni settanta con il femminismo”. “E’ del 1977, infatti, il primo libro significativo sul tema – aggiunge Zappaterra – si tratta di ‘Compagne‘, scritto da Bianca Guidetti Serra. Nel tempo è difficile trovare testimonianze oggettive e onnicomprensive come in questo volume. Tra i tanti elementi però vorrei citarne uno che in mezzo alla retorica patriottica si è perso. Quando ho intervistato decine di partigiane ravennate, solo una combattente mi colpì descrivendomi la sua sofferenza psichica e fisica durante e dopo la guerra, quella che oggi definiremmo la sindrome post traumatica. Un elemento cruciale dimenticato nelle celebrazioni, come se non fosse mai esistito”.
“Non partire dal numero di partigiane in armi – conclude Becchetti – vuol dire abbattere un limite storiografico salito agli onori della cronaca con ‘Rosso e nero’ di Renzo De Felice, ampliando di molto la quantità di ‘combattenti’ al femminile. Vuol dire esplorare quella zona grigia, tra il rosso e il nero, che diventa maggioranza, vuol dire ricordare tutte quelle donne che non imbracciavano le armi ma che anche solo facevano dormire in un fienile i partigiani che fuggivano, o nascondevano un bigliettino con ordini militari dentro i maccheroni nelle drogherie. Queste donne, ben oltre i numeri esigui di De Felice, scelsero bene da che parte stare, e furono tante”.