‘Sono sempre stata sola, come un gatto’ dice Anna Maria Ortese, nata cento anni fa e viva ancora, anche se per pochi. Sacerdotessa di un tempo, Sibilla di un antro scuro che è quello della scrittura, la sua voce era ascoltata troppo poco e troppo poco viene ricordata adesso, come se l’ostruzionismo che subì all’epoca resista ancora.
Della sua solitudine non era una vittima, ma artefice: diceva di essere una persona antipatica e se ne infischiava dei circoletti letterari, dei salotti, delle marchette editoriali, delle apparizioni pubbliche. A Goffredo Fofi, due anni prima di morire, in un’intervista che rilasciò per Linea d’ombra, dice: ‘Le interviste le vedo come delle provocazioni. Io non voglio piacere per un’immagine, io non voglio “immagine”. La realtà mi stanca, la realtà è un muro di volti. Io sono una persona isolata. Mi sembra di venire dal fondo delle tenebre, però sì, ho avuto il piacere di fare qualche cosa, di poter dire: io esisto.’
Ecco. Lei si ritira, si fa da parte, lascia parlare i libri. Però, nello stesso tempo, non scompare, non si limita a diventare un fantasma che in qualche modo diventerebbe un’immagine altra che parlerebbe al suo posto: lei afferma e dice, non si sottrae alla presenza civile del suo essere scrittore e individuo – lei col mondo ci fa a botte e perde, perdendo marchia la cicatrice di guerra che le è costata la letteratura: ‘I libri, la scrittura, l’invenzione… sono ricordi e malattie dell’intimo. I libri sono ferite dell’anima. L’ostrica costruisce perle vere, io forse no, le mie sono forse perle false. Però questo so fare. La perla è la malattia dell’ostrica. Scrivere è una malattia; mi costano molto queste cose luccicanti che cerco di costruire’.
Prima osteggiata da una platea maschile di letterati (di cui criticherà la scura e indifferente attività intellettuale ne Il silenzio della ragione), poi costretta a chiedere la Legge Bacchelli per sopravvivere alla miseria, la sua esistenza è il prezzo e il simbolo di una condizione che umilia la letteratura e, nello stesso tempo, la combatte: come quella della Morante e di Pasolini, la sua attività letteraria è una profezia laica di resistenza e lotta alle indecenze della sua, ma anche della nostra, società.
Per lei ciò che conta è il rinnovamento, non la rivoluzione che alla fine non cambia nulla, ma uno slittamento strutturale delle forme e delle sostanze del vivere, che innestano nuova linfa alla vita stessa. Col suo sguardo spaesato, a volte sonnambulo, ne Il cardillo addolorato o ne Alonso e i visionari, cronicizzato poi nella spietata osservazione dell’essere umano ne Il mare non bagna Napoli, la Ortese urla, chiede pietà, chiede ascolto, chiede attenzione, e per lei l’attenzione è una questione di stile non solo nella scrittura, ma anche nella vita: ‘Parlando di libri, di romanzi, di letteratura, bisognerebbe anche parlare di stile. Nell’opera è fondamentale lo stile, ma a volte, quando la società intorno a noi non sente, non conta: lo stile, in questo tipo di società, non conta più nulla’.
E oggi, sappiamo sentire? Io dico di no. E tutto torna, ieri come adesso, dopo i cento anni passati, dopo che alcuni hanno letto i suoi libri, dopo che molti, troppi altri, non li hanno letti. Allora, mi dice Ortese, ecco a cosa servono i libri: a permettere a una società di sentire.
(Foto tratta da annamariaortese.iobloggo.com)