Tre aziende su cinque chiedono prestiti in banca per pagare le tasse. Lo rileva un sondaggio del Centro studi Unimpresa condotto fra le 120.000 imprese associate sulla base dei dati raccolti al 31 marzo 2014 e secondo il quale il 68% delle micro, piccole e medie imprese italiane è stato costretto a ricorrere a un finanziamento per onorare le scadenze fiscali. In cima alla lista dei balzelli che hanno spinto gli imprenditori a rivolgersi agli istituti di credito c’è l’Imu, ora tallonata dalla Tasi. Quanto ai settori produttivi, sono gli operatori turistici (per gli alberghi), le piccole industrie (per i capannoni) e la grande distribuzione (per i supermercati) quelli maggiormente esposti con le banche a causa dei versamenti fiscali sugli immobili e, più in generale, per tutti gli adempimenti con l’Erario.
E così oltre 81.600 piccole e medie imprese associate a Unimpresa hanno chiesto soldi alle banche, lo scorso anno, per rispettare le scadenze tributarie. Le rilevazioni, che confermano una tendenza registrata già lo scorso anno, sono state effettuate a partire dall’inizio del 2014, attraverso le 60 sedi di Unimpresa sparse su tutto il territorio nazionale. Oltre all’Imu e alla Tasi, è l’Irap l’altra tassa che mette in difficoltà gli imprenditori italiani, tenuto conto che l’imposta regionale sulle attività produttive si paga anche quando i bilanci sono in perdita, dunque in assenza di utili. Quanto all’Imu, incrociando i risultati del sondaggio del Centro studi Unimpresa con i dati del dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia sul gettito fiscale, si può sostenere che per effettuare i versamenti sono stati contratti nuovi prestiti per quasi 7 miliardi di euro.
Tutto ciò, spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi, “genera un triplo effetto negativo sui conti e sulle prospettive di crescita delle aziende. Il primo è l’apertura di linee di credito destinate a coprire le imposizioni fiscali invece di nuovi investimenti, il che limita la natura stessa dell’attività di impresa. Il secondo problema sorge, poi, alla chiusura degli esercizi commerciali, quando il valore degli immobili posti a garanzia dei “prestiti fiscali” va decurtato in proporzione al valore dell’ipoteca, con una consequenziale riduzione degli attivi di bilancio. Il terzo problema è relativo a eventuali altri finanziamenti per i quali l’impresa deve affrontare il fatto di avere meno garanzie da presentare in banca e un rating più alto che fa inevitabilmente impennare i tassi di interesse”. Secondo Longobardi “questa è la prova che un sistema tributario troppo pesante si accanisce sulle imprese fino a portarle allo sfinimento, se non al fallimento. Attivare linee di credito per pagare le tasse è assurdo: vuol dire la fine del sistema economico. Di fatto l’impresa si trova morsa in una tenaglia, con fisco e credito che tagliano le gambe e chiudono le porte del futuro”. Non solo. Alla fine, spiega, “il conto arriva anche per lo Stato: un’impresa che annaspa diventa un contribuente meno “generoso” e pure il gettito tributario ne risente e non poco sia sul fronte dell’imposizione diretta (a esempio l’Ires) sia su quello dell’imposizione indiretta (come l’Iva)”.
A fare i conti sulla sopravvivenza delle imprese è invece Unioncamere che per il primo trimestre 2014 rileva più di 3.600 fallimenti. Cioè circa 40 al giorno, quasi due all’ora, il 22% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Crescono inoltre anche le procedure di concordato, 577 con un aumento del 34,7 per cento. In lieve controtendenza appaiono, sempre secondo i dati Unioncamere, le aperture di procedimenti fallimentari per le imprese costituite come consorzi o cooperative, che hanno mostrato un calo di circa il 2 per cento. Una fotografia che mostra una crisi ancora aperta anche se è pur vero che fallimenti e concordati – come si sottolinea nell’analisi – sono l’esito di un lungo processo di crisi e quindi di fatto codificano uno stato antecedente a quello preso in esame.
L’aumento riguarda sia le società di capitali (+22,6%), che le società di persone (+23,5%) e le imprese individuali (+25%). Una procedura fallimentare su 4, aperta tra l’inizio di gennaio e la fine di marzo, ha riguardato aziende che operano nel commercio (+ 24% rispetto allo stesso periodo del 2013). In crescita anche i fallimenti nell’industria manifatturiera, un comparto in cui il fenomeno era in calo nel 2013: nel primo trimestre del 2014 si contano 763 fallimenti di imprese industriali, il 22,5% in più dell’anno precedente. Allo stesso modo, anche l’edilizia ha fatto registrare un incremento rispetto al dato 2013: +20,1% corrispondenti a 771 nuove procedure avviate. Dal punto di vista geografico, l’aumento dei default riguarda tutte le aree del Paese: in misura maggiore, rispetto alla media nazionale, nel Nord Ovest (+22,8%), nel Centro (+23,0%) e nel Mezzogiorno (+27,8%); sotto la media nel solo Nord-Est (+12,5). Tra le regioni, gli aumenti più consistenti rispetto all’anno precedente Abruzzo, Liguria, Puglia, Umbria e Marche mentre in termini assoluti il primato spetta alla Lombardia con il maggior numero di procedure fallimentari aperte (808), seguita a distanza da Lazio (364) e Toscana (293). Le uniche regioni in cui i fallimenti appaiono in diminuzione sono quelle meno industrializzate: la Basilicata (-17,6%), il Molise (-9,1%) e la Calabria (-2,4%). Per quanto riguarda le domande di concordato, una grossa fetta è attribuibile ai forti incrementi osservati nell’industria manifatturiera (+53,8% rispetto al primo trimestre 2013), nel commercio (+44,8%) e nelle costruzioni (+28,9%). Insieme i tre settori costituiscono il 79,3% di tutti i concordati aperti nel periodo. Il Nord Ovest è l’area in cui nel primo trimestre 2014 si conta il maggior numero di domande di concordato preventivo (182), in aumento del 43,3% rispetto allo stesso periodo del 2013.