A 86 anni l'ex notabile Dc punta alla poltrona di sindaco nel suo paese in provincia di Avellino: "Sono la storia". I totem del suo carisma: discorsi da rebus, le carte e i doni ai giornalisti
Un De Mita è per sempre, come il diamante della pubblicità. Benvenuti a Nusco, 914 metri sul livello del mare, 4800 abitanti immersi nelle brume dell’Irpinia profonda. Qui la storia si è fermata agli anni ruggenti della Prima Repubblica, quando Silvio Berlusconi pensava solo ai danè, Beppe Grillo faceva ridere in tv e Tangentopoli era lontana. E “la storia sono io, non il vecchio, né il nuovo. Io sono la storia” . Così parlò Ciriaco De Mita annunciando al Corriere del Mezzogiorno la sua candidatura a sindaco del paese. E in piazza la statua di Sant’Amato, patrono e protettore di Nusco (Avellino), alzò gli occhi al cielo.
Nato il giorno della Candelora di ottantasei anni fa, quarantacinque dei quali passati tra i banchi di Montecitorio, Luigi Ciriaco fu segretario della Democrazia Cristiana, ministro più volte, primo ministro nel 1988, infine parlamentare europeo. Un “intellettuale della Magna Grecia”, lo sfotteva Gianni Agnelli, frase riscritta con perfidia da Indro Montanelli in “non vedo cosa c’entri la Grecia”. Ciriaco ritenta la scalata alla poltrona più ambita di quello che è il suo regno, per una freudiana voglia di rivincita.
Gli storici del suo paese ricordano che già nel 1956 l’allora giovane De Mita provò a diventare sindaco, ma perse contro la lista della “Spiga di grano” di Luigi Lanzetta. Ora dovrà vedersela con Rosanna Secchiano, giovane ingegnere anche lei candidata a sindaco e sostenuta dalla sinistra. A Nusco va via un De Mita e ne arriva un altro. Perché sindaco del paese fino a ieri è stato Giuseppe De Mita, stesso sangue, stessa pelata del De Mita senior. Era il nipote ribelle che negli anni Ottanta convocò in Irpinia Marco Pannella per attaccare l’illustre zio e tutta la family. Poi si pentì e ad Avellino ancora ricordano una scena memorabile. Teatro Eliseo, ex casa del Fascio, c’è un congresso della Dc e Giuseppe sale sul palco. Chiede perdono “allo zio, alla famiglia e al partito”. Quando tocca allo zio presidente del Consiglio e segretario nazionale, la tragedia greca impallidisce. “Non ti perdono”. Il no è secco, pronunciato con le lacrime agli occhi. Giuseppe la pagherà anni dopo, precisamente nel 2008, quando un altro Giuseppe, nipote pure lui, ma fedelissimo del potente zio, viene nominato deputato dopo una breve e inutile sosta alla vicepresidenza della Regione Campania. È il De Mita system, un misto di potere provinciale e grande politica nazionale.
Parla Gianni Marino, ex bancario, storico per passione. Anche lui è parente di Ciriaco, sono cugini, ma è da sempre all’opposizione della famiglia e della Dc. “Sono il coordinatore del Pd di Nusco, io e Ciriaco non parlavamo da quarant’anni, nei mesi passati ci siamo politicamente riavvicinati. Abbiamo fatto un convegno e io gli ho detto quello che pensavo, Ciriaco sei stato un leader fino agli anni Settanta, poi sei diventato un uomo di potere. Insieme volevamo ricostruire un dialogo, fare una scuola per quadri politici, trasformare Nusco in una sorta di Atene dell’Irpinia. È finito tutto con la sua candidatura a sindaco. Un triste tramonto del patriarca”.
E De Mita patriarca fu davvero. “Chi è De Mita? ‘O padrone e l’Italia”, diceva il “ricottaro” portato sugli schermi da Renzo Arbore in “Ff Ss…”. Alla fine degli anni Ottanta, con lui presidente del Consiglio, a Roma sbarcò il clan degli avellinesi. Salverino De Vito da Bisaccia, ministro del Mezzogiorno, il fido Nicola Mancino, vicepresidente del Senato, l’indisciplinato Gerardo Bianco alla Camera, l’ex portaborse e raccomandato Rai Clemente Mastella della vicina Ceppaloni a occuparsi di giornali. E poi Biagione Agnes alla Rai, suo fratello Mario direttore dell’Osservatore romano, Elveno Pastorelli al vertice prima dei vigili del fuoco poi ai miliardi del dopo terremoto. Un’abbuffata mai vista. Ai tempi, quando sentiva parlare di clan, Ciriaco prendeva sottobraccio il giornalista amico, lo portava in giro nel corridoio dei passi perduti e spiegava: “Gli irpini rappresentano il 70 per cento dell’intelligenza nazionale”.
Le foto d’epoca lo ritraggono con Arafat, Margaret Tatcher, Reagan, sua moglie Annamaria sorridente con la first lady Nancy, i traduttori impazziti perché non riuscivano a tradurre i “ragionamenti” magnogreci, ma poi Ciriaco sempre a Nusco tornava. A giocare a tressette con Antonio Pagliuca, potente capo dell’Istituto case popolari di Avellino, detto “sputazzella”, e con altri capi elettori di paese. Che l’8 agosto, festa di san Ciriaco, facevano la fila per rendere omaggio al caro leader. “Anche Francesco Pionati era sempre in coda a chiedere favori, lui entrò in Rai con una pedata atomica di mio padre”, fa sapere Antonia, figlia prediletta di De Mita. E Marzullo, Gigi, il re della notte televisiva, figlio di un altro capo elettore di sua maestà Ciriaco: “De Mita mi ha segnalato, ma poi ho fatto tutto da solo”, ammise in un’intervista nel 2001.
Favori e potere, Nusco come ombelico del mondo. Tanti giornalisti italiani hanno passato serate ad ascoltare le elucubrazioni demitiane, alla fine si tornava a Roma carichi di mozzarelle e taralli. Colore dei tempi andati? Non proprio, perché Ciriaco De Mita e soci del clan degli avellinesi furono i precursori di un sistema di occupazione feroce dello Stato. L’Irpinia-gate e i 64mila miliardi del dopo terremoto, il caso Cirillo. L’8 agosto del 1988 Ciriaco De Mita, inconsapevolmente, inaugurò la stagione berlusconiana dell’attacco ai giudici. Carlo Alemi, magistrato di Napoli, si era permesso di indagare sui misteri del sequestro di Ciro Cirillo da parte della Br e sul riscatto di 1 miliardo e 400 milioni pagato a terroristi e camorra. Fece i nomi di Gava e di altri pezzi da novanta della Dc, Alemi, e De Mita lo attaccò in pieno Senato. “Quel giudice si è messo al di fuori del circuito costituzionale”. Sei anni dopo Silvio Berlusconi diventò il padrone d’Italia.
da Il Fatto Quotidiano del 26 aprile 2014