Lui parla così tanto, in tv e su Twitter, che diventa difficile seguirlo. I giornali istituzionali annunciano riforme quando ancora non ci sono neppure le bozze e celebrano rivoluzioni ben prima che il Parlamento abbia qualcosa da votare. Il risultato è che diventa sempre più legittimo chiedersi: ma cosa ha fatto davvero finora Matteo Renzi? Ha mantenuto le sue promesse? Il Sole 24 Ore di ieri attirava l’attenzione critica sul piano per le scuole: il premier aveva annunciato 3, 5 miliardi, ma il decreto Irpef permette agli enti locali di spendere fuori dal patto di stabilità soltanto 240 milioni di euro. L’intervento, più a beneficio delle imprese di ristrutturazione che degli studenti, avrà quindi una dimensione minima.
Nei ‘semafori’ che pubblichiamo oggi su il Fatto Quotidiano, facciamo il punto sulla distanza che separa gli annunci dai risultati. A una prima analisi si può vedere come Renzi sia risultato più efficace sui dossier che gli garantiscono il maggiore ritorno di consenso, e questo è comprensibile visto che manca un mese alle elezioni europee. La promessa di far trovare in busta paga ad alcuni milioni di italiani 80 euro in più a maggio è stata rispettata, anche se con tanti compromessi al ribasso che rendono l’intervento molto diverso da come lo sognava il premier. La pecca maggiore è che la copertura non è strutturale, quindi è ancora molto incerto che il bonus fiscale sia garantito dal 2015 in poi.
I tagli alla casta, simbolici (o demagogici) ma molto richiesti, ci sono: dalla vendita delle auto blu su eBay al tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici a 240 mila euro fino a minuzie, ma significative, come la cancellazione delle tariffe postali agevolate per il materiale di propaganda dei partiti. Anche le nomine nelle società partecipate dal Tesoro sono state gestite in coerenza con le promesse: via tutti i dinosauri, incluso il potentissimo Paolo Scaroni. Anche se non tutti i nomi prescelti per la successione sono all’altezza dei proclami di rottamazione di Renzi, basti guardare Emma Marcegaglia alla presidenza Eni. I problemi arrivano dove il premier non può decidere da solo ma ha bisogno del consenso o dei voti di altri bizzosi soggetti, da Silvio Berlusconi con Forza Italia all’ala sinistra del Pd in Parlamento. Quando Renzi non può fare tutto da solo, il risultato è quasi zero: la legge elettorale si è impantanata al Senato, il suo destino è legato al superamento del bicameralismo, ma anche la trasformazione del Senato in camera delle autonomie locali è bloccata da un’opposizione sempre più larga.
A parte i vari interessi politici contrapposti, una delle spiegazioni di merito è che nessuno ha ben chiaro cosa dovrà fare il nuovo Senato, visto che prima (o poi) bisognerebbe redistribuire le competenze tra Stato ed enti locali riformando la Costituzione nel titolo quinto. Anche l’altra riforma ambiziosa del renzismo, quella del mercato del lavoro, per il momento ha prodotto pochino: un decreto legge che aiutava le imprese a ridurre il rischio di cause legali permettendo loro una maggiore flessibilità nel ricorrere al lavoro precario (i disoccupati sono felici alla prospettiva di diventare precari, ma i precari sono piuttosto seccati dalla prospettiva di rimanere in quella condizione più a lungo di prima). In Parlamento il Pd ha iniziato a svuotarla, reintroducendo parte dei vincoli eliminati dal ministro Giuliano Poletti. Risultato: impalpabile.
Quanto alla riforma più complessiva, la legge delega che dovrebbe essere il vero Jobs Act, è un tema da affrontare nei prossimi mesi. Anche della delega fiscale non si è più saputo niente, eppure dovrebbe essere la leva per una vera riforma delle tasse. Morale: se lo statista è quello che guarda alle prossime generazioni e il politico chi pensa alle prossime elezioni, Renzi è un politico efficace. Ma le grandi riforme sono molto più complesse.
Twitter @stefanofeltri
il Fatto Quotidiano, 27 Aprile 2014